Conseggio pe-o patrimònio linguistico ligure

Conseggio ligure

Paolo Foglietta (XVI sec.)

Presentazione a cura di Alessandro Guasoni
Paolo Foglietta
Foglietta in un ritratto ipotetico di Elettra Deganello, basato sulla descrizione dell’autore di sé stesso.

Paolo Foglietta, già ai suoi tempi considerato il più importante dei poeti in genovese, è sempre apprezzato anche dai critici odierni, sia per essere stato il primo a mettere un po’ d’ordine alla grafia e alla lingua, dopo molto tempo in cui erano state abbandonate alla decadenza, sia per la viva passione politica e morale delle sue poesie. E questa è proprio ciò che, in oggi, colpisce di più il lettore.

L’uso della lingua genovese, poi, era per il Foglietta una parte importante del suo programma di restaurazione degli antichi valori; dal suo punto di vista, i cambiamenti intervenuti nella lingua sono il segno che i costumi decadono: «non è meraviglia già se cambiamenti di lingue e d’ogni cosa facciamo oggi / perché a far cambi tutti siamo abituati», dice, e qui la parola «cangi» sta a significare sia «cambiamenti», sia polizze di cambio, cambiali; come dire che i cambi nella lingua sono una cosa sola con il vizio di fare debiti e vivere d’usura, vita di parassiti, che non ha nulla da spartire con le virtù repubblicane degli antichi genovesi, come li vedeva il Foglietta.

Le sue poesie sono, in gran parte, il tentativo di ridestare i suoi concittadini dall’accidia, mai i tempi della grandezza di Genova, «madre di regni e di città» erano ormai finiti. Costretta dalla situazione storica, ancor più che dalle magagne dei suoi cittadini, la Repubblica s’era avviata a contare sempre meno sulla scena del mondo.

Al di là dell’impegno civile del Foglietta, bisogna menzionare poi la sua bravura d’artista, nella pienezza del significato di questa parola; alcuni sonetti contengono momenti che sono quasi delle pitture impressioniste; indimenticabile la descrizione di un attacco di barbareschi in Riviera, con donne, uomini, bambini che vengono catturati per essere fatti schiavi; l’ansietà, la paura di quei poveretti, la confusione di quella contingenza sono resi con maestria.

Per finire, non si può dimenticare il Foglietta d’ispirazione «petrarchesca», con il suo sonetto più famoso: Maitiña, la ragazzina capace di mutare l’acqua salata in acqua dolce solo con la sua presenza. Forse il più bell’omaggio alla bellezza femminile nella letteratura genovese di tutti i tempi.

Quando ri nostri antichi inscivan fuoe

Quando ri nostri antighi inscivan fuoe
d’esto porto de Zena con l’armà
re corne dentro ben favan tirà
a ri corsè ch’oura ne tran ro cuoe.

E ben messà ghe favan ro trazoe
e a cubozzon ri favan zù chiombà,
si che tegnivan ben netto ro mà
ni fummo moè temmen de ravioe.

Ma s’oura nave, barche, o bregantin
essan fuoe d’esto porto per nostro uso,
l’afferran presto questi chen mastin.

Ri què dri nostri legni fan ro fuso
si ben, che legno grosso, ò pichienin,
no ardisse chiù trà naso da pertuso.

E puoe che l’antigo uso
hemo lasciao d’armà garie assè
chiù no possemo villezzà ra stè.

Perchè san ch’oura armè
de vendegnari lò no s’attrovemo
e belle vigne con poche ughe semo.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Quando i nostri antichi uscivano fuori
da questo porto di Genova con la flotta
erano ben capaci di fare ritirare le corna
ai corsari che ora ci strappano il cuore.

E gli facevano ben muovere il sedere
e li facevano cadere a capofitto,
così che tenevano ben pulito il mare
nè mai si spaventavano di fumo dei ravioli.

Ma se ora navi, barche, o brigantini
escono fuori dal porto per nostro uso,
l’afferrano tosto questi cani mastini.

I quali fanno una strage tale delle nostre imbarcazioni
che nè legno grosso, nè piccolo,
osa più mettere il naso fuor dal buco.

E da quando abbiamo abbandonato l’antico uso
di armare molte galee
non possiamo più villeggiare d’estate.

Perchè sanno che oggi non ci troviamo
abbastanza armati da fare una vendemmia di loro
e siamo belle vigne con poca uva.

Dond’è l’honò dri nostri antighi e groria?

Dond’è l’honò dri nostri antighi e groria?
chi han sott’e sovra terra e mà buttao,
perch’han ro vero honò tutti apprexao,
quanto noi l’oro, pompa e vanagroria?

Cose dé dì messé Paganin Doria
chi era fragello dri paghen chiamao?
Cose dé dì messè Giaxo Axerao,
e ri atri antighi degni de memoria?

Che paraxi da Re chì fà ne ven
puoe da un nostro vassallo, e da corsè,
batte ne ven per che garie n’hemo.

Ch’oura da Duchi tutti stà voggiemo,
ma quelli chi ro mondo tremà fen,
a Zena stavan da citten privè,

senza paraxi ornè.
Ma se ben vivi in gran paraxi stemo
in streita fossa morti allogieremo,

nì ciù mentè saremo;
donca come i antighi femo noì,
se morti e vivi havei voggiemo honoì.

Che son monto meggioì,
per fane honò, ri legni dre garìe
che re poise de cangi e pompe e prie.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Dove sono l’onore e la gloria dei nostri antichi,
che misero sottosopra terra e mare
perché apprezzarono il vero onore
quanto noi l’oro, il lusso e la vanagloria?

Che deve dire messer Paganino Doria,
che era chiamato flagello degli infedeli?
Che deve dire messer Biagio Assereto
e gli altri antichi degni di memoria,

che ci vedono costruire qui palazzi da re
e poi sconfiggere da un nostro vassallo o dai corsari
perché non abbiamo galee?

Ché adesso vogliamo tutti vivere da Duchi,
ma coloro che fecero tremare il mondo
vissero a Genova come privati cittadini

senza palazzi ornati
Ma, sebbene da vivi abitiamo grandi palazzi,
da morti alloggeremo in una stretta fossa

né più saremo ricordati
Quindi, facciamo come gli antichi
se vogliamo avere onori da vivi e da morti;

poiché sono molto migliori
i legni delle galee, per farci onore,
che non le polizze di cambio, i lussi e i gioielli.

Se duoe de Zena

Se duoe de Zena ra Rivera assè
perchè chiù da guardara a n’ha garie,
nì chiù s’ode in Rivera ca stromie
e tamborin sunnà pe ri corsè.

Ni re gente de nuoette dorman moè
che ghe fan turchi e mori scorrarie,
e se personne son troppo adormie
lighè se troevan prima che dessè.

E streiti in brasso da ri corsè presto
in fusta son portè figgie e figgiuoe,
si fan là dentro de tutt’erba un fassio,

che boettan i homi , e donne à catafassio,
e inseme si ben strenzan quello, e questo,
che spesso fan buttaghe ro sciao fuoe.

Ni ghe va di da cuoe:
Ohimè che moero, ohimè che vegno a men,
che ri lascian morì perchè son chen.

E ben mennan re moen,
che onde feran con ta furia van,
che sempre ro segnà restà ghe fan.

E ro sangue ne tran:
sin che Zena no fa legni armà
ghe conven ra Rivera abandonà.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Si duole di Genova la Riviera assai
perché più non ha galee da proteggerla,
né più s’odono in riviera che campane a stormo
e suonare tamburi per i corsari.

Né la gente dorme mai di notte
perché vi fanno Turchi e Mori scorrerie,
e se le persone sono troppo addormentate,
si trovano legate prima di svegliarsi.

E stretti in braccio dai corsari presto
sulle fuste son portate donne e bambini
e là dentro fanno d’ogni erba un fascio,

ché buttano donne e uomini alla rinfusa
e stringono assieme questo e quello a tal punto
da fargli uscire il fiato.

Né vale dirgli accorati:
Ohimé che muoio, ohimé svengo,
perché li lasciano morire, quei cani.

E assestano tali colpi,
che dove colpiscono con tal furia vanno,
e sempre vi fanno restare il segno.

E ci succhiano il sangue:
fin che Genova non fa armare navi
le conviene abbandonare la Riviera.

Da Citten no vestimo

Da citten no vestimo, ma da Conti
ch’emmo cangiao ra Toga in pompe e galle
e tutti à re virtù demmo de spalle,
e corre derré à vitij semo pronti.

No andà chiù se degnemo su ri ponti
a receive dre lanne e spacchià balle
che à noi conven pù fà, che in questa valle
semo nassui, circondà da monti.

Ni vive da Baroin poemo d’intrà
che ne conven per forza esse mercanti
o Zena moere nostra abandonà.

Ro scosà ne conven tegnì davanti
e a ra butega infin ne conven stà,
o scorre ri Ponenti e ri Levanti.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Non vestiamo da cittadini, ma da conti,
perché abbiamo cambiato la toga in pompe e galle
e tutti alla virtù diamo le spalle
e ad inseguire i vizi siamo pronti.

Non ci degniamo più di andare sui ponti
a ricevere lane e vendere balle,
cosa che pure ci conviene fare, poiché
siamo nati in questa valle circondata da monti.

Nè possiamo vivere di rendita come Baroni,
ché dobbiamo per forza essere mercanti
o Genova madre nostra abbandonare.

Il grembiule dobbiamo tenere davanti,
infine, e stare in bottega,
oppure depredare il Ponente e il Levante.

Gren ville hemo dattorno ra Cittè

Gren ville hemo dattorno ra Cittè
re què venzan con l’arte ra natura,
chi han sempre belle scioì, frute e verdura,
e pareixi terrestri son chiamè,

e in queste ville hemo paraxi assè
grendi e ben feti per architettura,
con de fontanne belle otra mezura,
de marmaro scorpìe e naturè.

Ma che ne zoa avei sì belle ville
se quando è tempo goe no re poemo,
perchè chiù n’hemo a Zena unna garia?

E conven che ra guardia in villa femo,
perchè a trovà ne vennan corsè mille,
ri què ne mennan, se dormimo, via

su fusta, ò su garia;
e homi e donne fuzze fan,
ni a piggià braghe, ò camixette, stan,

che mostran quello ch’han:
e se ben torre e guardie in villa femo,
da ri corsè piggiase ancon vegghemo.

E intrà se ri veiremo
dentro Zena, non che intri giardin,
se à fà garie no tornemo infin.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Grandi ville abbiamo attorno alla città
le quali vincono con l’arte la natura,
piene di bei fiori, frutta e verdura,
e paradisi terrestri son chiamate.

E in queste ville abbiamo molti palazzi,
grandi e ben fatti per architettura,
con fontane belle oltre misura
scolpite in marmo e al naturale.

Ma che ci giova avere sì belle ville,
se quando è tempo non ce le possiamo godere,
perché non abbiamo più a Genova una galea?

E in villeggiatura dobbiamo fare la guardia,
perché vengono a farci visita mille corsari,
i quali, se siamo addormentati, ci portano via,

su fusta o su galea,
e fanno fuggire uomini e donne
che non stanno a prendere pantaloni o camicette,

ma mostrano quel che hanno.
E benché facciamo in villa torri e posti di guardia
ci vediamo ancora catturare dai corsari.

E ce li vedremo entrare
dentro Genova, nonché nei giardini,
se infine non torniamo a costruire galee.

Zena moere de regni e de cittè

Zena moere de regni e de cittè
zà reginna dro mà fò tanto brava
che navegando de gren Rè piggiava
non che menui e pichieni corsè.

Che a travaggiava con garie armè
e ligava nemixi e noi servava,
e chenne grosse da per lé schiancava,
chi ancora son per Zena spanteghè.[1]

Ma si ben l’otio l’ha marcìa chie,
che da per lé stà drita a no puoe chiù,
non che fà come avanti bravarie.

E s’un baston da poeise reze su
in man noi no ghe demo de garie
Zena à ra fin porreiva caze zù.

Ni Renna oura a pà chiù,
anzi de Renna a pà vegnùa un messo
perchè parla che veggo de trasmesso
e bàttera ben spesso;
ma se ro legno dre garie a l’ha,
de corsè ra marinna a spasserà.

E Renna a tornerà
perchè castiga matti, in concruxon,
re garie de Zena dì se pon.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Genova madre di regni e di città
già fu regina del mare tanto coraggiosa
che navigando catturava grandi Re
nonché minuti e piccoli corsari.

Perché lavorava con galee armate,
e legava nemici e ci salvava
e grandi catene da sola spezzava,
che ancora sono sparse per Genova.[1]

Ma a tal punto l’ozio l’ha fatta marcire
che non può più star dritta da sé,
e tanto meno compiere atti di coraggio.

E se in mano per sorreggersi un bastone
fatto di galee noi non le diamo
Genova infine potrebbe cadere.

Né ora sembra più una Regina
ma da Regina sembra divenuta un servitore,
perché vi si parla a vanvera
e spesso viene battuta.
Ma se il legno delle galee ha
ripulirà il mare dai corsari.

E tornerà Regina
perché in conclusione castiga matti
le galere di Genova possono essere dette.

[1] Il poeta allude alle catene che chiudevano l’accesso al Porto Pisano in età medievale, portate a Genova in segno di trionfo dopo la vittoria della Meloria (1283) e appese alla Porta Soprana. Vi allude in una sua poesia anche il De Franchi. Furono restituite alla città toscana in epoca fascista, con una cerimonia di riconciliazione.

Maitinna

In questa celebre poesia, l’aristocratica figura divina dei poemi omerici, la rhododàktylos héos, l’aurora dalle dita di rosa, discende fino al nostro mondo e si incarna in una ragazzina del popolo, Maitiña («la mattina», forse un nome proprio, a quei tempi, così come in oggi possiamo dare per nome a una bambina «Aurora»).

Quando de scuoeggio in scuoeggio va Maitinna
accuoeggiando patelle gritte e zin,
l’egua deven crestallo puro e fin
e de sarà ven doce ra marinna.

E l’areghe e l’arenna e l’herbettinna
deven d’oro smerado e de rubin
e ri pessi d’arinto brillarin
e Nettun senza in testa se gh’inchinna.

E ro sò per no cuoexera s’asconde,
ma ne fa lumme in cangio ro sò viso:
ro vento treppa int’re sò trezze bronde.

Ma no treppo zà mi, perchè m’aviso
che se a se vè si bella dentr’i onde
ch’a no amme sarvo lé como Narciso.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Quando Mattina va di scoglio in scoglio
raccogliendo telline, granchi, ricci,
l’acqua diviene cristallo puro e fine
e il mare da salato diventa dolce.

E l’alghe e la sabbia e l’erbettina
divengono d’oro smeraldo e di rubino
e i pesci d’argento splendente
e Nettuno a capo scoperto le si inchina

Ed il sole per non scottarla si nasconde
ma in cambio il suo viso ci rischiara
il vento scherza fra le sue trecce bionde.

Ma non scherzo già io, perchè m’accorgo
che se vede sè stessa così bella nelle onde
può amare solo sè stessa, come Narciso.

Voi vorei pù coxin che tuttavia

L’indifferenza dei genovesi verso la poesia, verso il bene comune, e soprattutto la loro adorazione per il denaro e il lusso sono oggetto degli strali del Foglietta.

Voì vorei pù coxin che tuttavia
à beive stagghe com’un oca à muoegio
dentr’a fontanna d’Heliconna, ò truoegio,
perché reste agro com’unna limia.

Povera e nua va ra poesia
e mi Foggietta fuoeggie chiù no vuoeggio
ma vorreiva oro in cangio d’orofuoeggio,
chi è solo insegna ancuoe d’ogni hostaria.

E derré fa ro loro ogni personna
à chi cerca orofuoeggio e vuoe ghirlande,
ma un Aze d’oro carrego è adoraou.

Ni perché à beive l’egua d’Heliconna
ra me foggietta devegnì puoe grande,
ni ro senno dro povero è apprexaou.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Voi, cugino, volete che io stia sempre
a bere come un oca a mollo
nella fontana o lavatoio di Elicona,
e farmi restare a secco come un limone.

Povera e nuda va la poesia,
e io Foglietta foglie più non voglio,
ma vorrei oro invece di alloro,
che oggidì è solo l’insegna delle osterie.

E ogni persona si fa beffe
di chi cerca l’alloro e vuol ghirlande,
ma un asino carico d’oro viene adorato.

Non perché beve l’acqua d’Elicona
la mia foglietta può divenire grande,
né il senno di un povero viene apprezzato.

Da Zena parto quaxi desperao

Da Zena parto quaxi desperao
perché da paro me no posso stà,
che paraxi da Re se gh’usa fà
e dorman ri citten dentro brocao.

E quaxi ogni personna dro me grao
caga in arinto e in oro vuoe mangià,
e da Papa ogni dì vuoe ben pappà
e in stalla ten cavalli da Imperao.

Però ognun scacchia, frappa, e va pomposo
e ten paggi e derré vuoe servitoì,
si ogni cosa chì ne costa un oeggio.

Però Zena à ri ricchi lassà vuoeggio,
dond’un povero spussa de virtuoso,
no possando fà speize da segnoì.

E ri pubrichi honoì
à noì pà che no toccan, zuro à Dé,
che misso ro comun s’amo deré,

e cascun fa per lé.
Si faxemo raxon che sé de pria,
quello Grimado che soretto cria

ch’o cerca compagnia.
Però ro comun poere oura se duoe,
ch’o n’aggie in tenti figgi un bon figgiuoe.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Da Genova parto quasi disperato
perché non ci posso vivere da mio pari,
ché vi si costruiscono palazzi da Re,
e i cittadini dormono nel broccato.

E quasi ogni persona del mio grado
caca in vasi d’argento, e in piatti d’oro vuol mangiare,
e da Papa ogni dì vuol ben pappare,
e in stalla mantiene cavalli da Imperatore.

Perciò ognuno maneggia, va attorno e si vanta,
e tiene paggi, e vuole servitori al suo seguito,
sicché ogni cosa qui ci costa un occhio.

Perciò Genova ai ricchi lasciar voglio,
dove un povero puzza di virtuoso,
non potendo fare spese da signori.

E le cariche pubbliche
a noi pare non tocchino, giuraddio,
ché il bene comune ce lo siamo messo per di dietro,

e ognuno pensa a sé.
Così comprendiamo perché sia una statua
quel Grimaldi che soletto grida

che cerca compagnia.
Perciò il padre comune ora si duole,
che tra tanti figli non ha un buon figliolo.

Andâ veggo per Zena à ra marraggia

In quest’altra sonettessa, il Foglietta propone un suo rimedio alla disoccupazione, soprattutto delle classi elevate; se si costruissero galee, si potrebbe dare un mestiere, quello delle armi, ai giovani che vanno attorno per Genova «scrollando le mani», senza un’istruzione e senza denaro, ch’erano chiamati «scapestrati» e dovevano essere molti, in modo da evitare il carcere, guadagnarsi il pane e dare lustro alla nazione.

Andâ veggo per Zena à marraggia
zoveni à moen scrollando chiù de cento,
che an ra forsa sì grande e l’ardimento
che ardireivan con Marte fà battaggia.

E oura se mangian sotto i pê ra paggia
e dent’re forche spesso feran drento,
ch’an pòchi sòdi e manco aviamento,
sì ch’è fòrza arrobà pe ra pittaggia.

Ma se Garie come avanti armemmo,
questi, ch’oura scavizzi son chiamè,
chiamà Scipioin noevi se faran
e Zena como Roma honoreran

E ri vassalli nostri e ri corsè,
ch’oura ne scorren, tutti scorriremo.
Garie donca femmo

ch’aviamento à ri meschin daran
e ro pan con ra spà se guagneran,
nì arrobando anderan.

Si che se legni de garie armemmo,
da ri legni dre forche ri traremo.
E Zena honoreremo:

perché l’utile, l’honò de questi tè,
in groria tornerà de esta cittè.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Vedo andare per Genova in malora
più di cento giovani disoccupati,
forzuti e coraggiosi,
che ardirebbero sfidare Marte in battaglia.

E ora si mangiano la paglia sotto i piedi,
e spesso vanno a sbattere in galera,
perché hanno pochi soldi e meno istruzione,
sicché sono costretti a rubare per mangiare.

Ma se armassimo come un tempo galee,
costoro, che sono chiamati scapestrati,
si faranno chiamare nuovi Scipioni
e onoreranno Genova come Roma.

E i nostri vassalli e i corsari
che ora ci rapinano, tutti scacceremo,
facciamo dunque galee

che daranno un mestiere ai poveretti
e si guadagneranno il pane con la spada,
né andranno rubando.

E se legni di galee armiamo,
li trarremo dai legni delle forche.
E onoreremo Genova,

perché l’utile e l’onore di costoro
tornerà in gloria di questa città.

Se no fosse oura l’unica VENEXA

Foglietta confronta Genova con Venezia e il paragone è tutto a vantaggio dell’antica avversaria di Genova; Venezia, modello di unione tra i cittadini da prendere ad esempio, è l’unica potenza italiana che costruisce e mantiene delle galee, per difendere l’Italia «mezza morta» e «la Santa Fede» contro i Turchi, sebbene i suoi cittadini siano forse più poveri dei genovesi. La parola «virtù» – è chiaro – si deve intendere nel senso latino di «qualità d’essere uomo»; lealtà, coraggio, saper mantenere la parola data, amore per il bene comune, e non nel senso moralistico e sessuale di «castità».

Se no fosse oura l’unica VENEXA
ch’Italia meza morta, e se sosten,
ghe trareiva ro sciao barbari, e chen,
e à reisego andereiva ancon ra Gexa,

però l’Italia e Santa Fè l’aprexa,
perché ra fè, lé mesma e noì manten,
dro senno e legni armè che sempre a ten,
e ZENA senza legni ognun desprexa.

Che lé mesma defende a no puoe chiù,
no che i amixi, perché a n’à garie,
como ha Venexa exempro de union.

E se ben ri citten chiù ricchi chie
cha quelli de Venexa fossa son
ro tesoro ghe manca dra virtù.

Come cascun vè pù;
ma quando à Zena ra virtù scioriva
Venexa à stecco votte assè tegniva,

e ancoedì ch’a n’é priva,
unna fantesca a pà quaxi vegnua,
à respetto Venexa chi è cressua,

e Zena descressua;
perché lassao de fà garie a l’ha,
ma no Venexa chi de lé ciù sa.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Se non fosse ora l’unica VENEZIA
a sostenere l’Italia mezza morta,
la ucciderebbero barbari e cani
e sarebbe a rischio perfino la Chiesa.

Perciò l’Italia e la Santa Fede l’apprezzano,
perché mantiene la Fede, sé stessa e noi,
con il senno e le galee armate che mantiene sempre,
mentre tutti disprezzano GENOVA, che non ha galee.

Perché non si può più difendere,
e tanto meno gli alleati, non avendo galee,
come le ha Venezia, esempio di unione.

E sebben i cittadini siano qui forse più ricchi
di quelli di Venezia,
manca loro il tesoro della virtù,

come ciascuno pur vede;
ma quando a Genova la virtù fioriva,
molte volte teneva a stecchetto Venezia,

e oggidì che ne è priva
sembra quasi divenuta una serva
in confronto a Venezia che è cresciuta

e Genova decaduta;
poiché ha tralasciato di fare galee,
ma non Venezia, più saggia di lei.

Se ben no ho Smirne e Mantua superaou

Ad un sonetto del giurista Ambrogio Spinola, che l’esortava a scrivere in italiano invece che in genovese, perché a quel modo avrebbe potuto superare Omero (secondo una tradizione, nato a Smirne) e Virgilio (che era di Mantova), Foglietta risponde così.

Se ben no ho Smirne e Mantua superaou
dri mè versi Zeneixi naturè,
a mi me basta, che per versi tè
ro poeta zeneixe son chiamaou.

Mi son Zeneixe e Zena ho sempre amaou,
però parlo zeneixe, in lengua mè,
no in lengua d’atri, como i inspritè,
nì d’atro che dro mè vago fassaou.

E se Tuscan parlasse (si dighè)
nobile no parreiva mi, Foggetta,
como son steti, e son, tutti ri mè,

ché re leze a noi dete da strangié,
mecanico fèto han, como bazetta,
chi à l’arte dro Tuscan chiù va deré.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Seppure non ho Smirne e Mantova superato
con i miei versi genovesi naturali,
per me è sufficiente, se con tali versi
vengo chiamato il poeta genovese (per eccellenza).

Io sono Genovese e Genova ho sempre amato,
perciò parlo Genovese, nella mia lingua,
non in lingua altrui, come gli indemoniati,
né vado vestito, se non di ciò che mi appartiene.

E se parlassi Toscano (starei per dire)
io, Foglietta, non sembrerei nobile,
come sono stati, e sono, tutti i miei [avi e parenti],

poiché le leggi a noi date da stranieri,
hanno reso plebeo, poiché ingenuo,
colui che insegue di più l’arte dei Toscani.