Anonimi del 1746
I fatti del dicembre 1746, ossia la ribellione che, iniziata da Balilla, portava in pochi giorni alla cacciata degli austropiemontesi dal territorio ligure, non ispirarono soltanto i versi del De Franchi e del Gallino, ma anche molti altri poeti anonimi, alcuni di parte popolare, altri più chiaramente di parte gentilizia, ma tutti animati da grande ardore patriottico: nel comune amore per Genova le classi sociali sembravano riconciliarsi e nasceva una sorta di epica popolare nel segno della lotta all’invasore.
Dal Trionfo reportao da ro popolo zeneize
Tra i vari poemi del ‘46, si ricordano il Trionfo reportao da ro popolo zeneize e la Libeazion dra Sittæ de Zena. Dal primo, una versificazione rozza ma importante per la precisione storica nel rievocare gli avvenimenti, traiamo i versi riguardanti l’episodio di Balilla, mentre dalla seconda prendiamo i sonetti che trattano del sacrificio di Pier Maria Canevari, giovane patrizio che, distintosi in varie fasi della rivolta, morì alla Scoffera per un colpo a tradimento.
In quello giorno mentre in Portoria,
in festa e tripudio, pin de groria,
ghe fava da ra truppa strascinà
ro carro chi portava un gran Mortâ,
con l’Onnipotença sò Domendê
fermâ ro fè in ro celebre quartê,
donde lì cheito, e feto un pertuso,
ben ciantao ghe restò a moeuo de fuso.
Ri Todeschi, lantô, pin de vinaçça,
fuga e sciaratto fen in sciù ra ciaçça
per costrenze quella gente dra contrâ
a mette torna in carro ro Mortâ;
ma dixendo de no a veire spieghæ,
a brettio menestron re bastonæ
addosso ogni sorte de personna,
a caxo capitâ in ora bonna.
A l’ora ro Ragaçço, d’ato dito,
chi veiva da un canto bello drito,
stanco de sopportâ quella canaggia,
lê solo vosse inçâ ra gran battaggia;
Ah razza – ghe disse – maledetta!
Questo braçço farà giusta vendetta!
E lançando d’abbrio uña sasciâ,
a un todesco rompì ra ceregâ.
A l’avertura de sta brutta guerra
subito ghe seguì un piggia ferra,
e int’un momento ri portorien
de San Steva afferron ri grosci poen;
e da poeu, con ri piççi e ri fiocchi,
ne carregon si ben quelli forlocchi
che con re osse peste, e testa rotta,
tremanti ne porton ra noeuva a Botta.[1]
Traduzione italiana
Quel giorno, mentre in Portoria,
in festa e tripudio la truppa piena di baldanza
faceva trascinare il carro che portava un gran mortaio,
Domineddio lo fece fermare nel celebre quartiere
dove cadde e, fatto un buco,
rimase piantato come un fuso.
I tedeschi, allora, pieni di vinaccia,
fecero sulla piazza furia e frastuono
per costringere la gente della contrada
a rimettere il mortaio sul carro;
ma siccome tutti si rifiutavano
cominciarono a distribuire bastonate a casaccio
a chiunque capitasse
per caso da quelle parti.
Allora il ragazzo di cui si è detto,
che spiava da un angolo,
stanco di sopportare quella canaglia,
da solo volle iniziare la gran battaglia;
– Ah, razza – disse – maledetta!
Questo braccio farà giusta vendetta!
E lanciando di colpo una sassata
ruppe la chierica a un tedesco.
All’inizio di questa brutta guerra
subito seguì un parapiglia
e in un momento i portoriani
afferrarono i grossi pani di Santo Stefano.
E poi, con i fiocchi e i controfiocchi,
ne caricarono per bene quei citrulli
che, con le ossa peste e la testa rotta,
tremanti ne portarono la notizia a Botta.[1]
[1] Il generalissimo austriaco Botta Adorno, di origini genovesi, e perciò particolarmente inviso alla popolazione, che lo considerava un traditore.
Dalla Libeazion dra Sittæ de Zena
In questo poemetto di parte aristocratica si narra la vicenda di Pier Maria Canevari, un patrizione che si batte eroicamente e viene ucciso a tradimento presso la Scoffera, mentre altri personaggi altrettanto importanti, ma di origine popolare, vengono lasciati in ombra, o non se ne parla affatto. I versi scorrono bene, ma la grafia è talmente irregolare da lasciare molte volte dei dubbi sul significato e la vera pronuncia delle parole.
Quest’è un loeugo[2] d’inverno da no stà,
perchè ra neive a l’à piggiao a pixon
e chi n’à ciù che o foeugo int’ro gippon
quelli bricchi o cùe de scorrattà.
E pù per poei a ri nemixi ostà,
che vozen come mosche lì a taccon,
fù beseugno spedì dra guarnixon
co’o capitannio Peìn Cannevà.
Cavaggeo si pio e spiitoso
che de Xerse l’exersito d’abbrio
aviæ menao con moddo industrioso.
E ra sò truppa ro voxava a’o crio
limoxineive, giusto e amooso,
comme un ommo mandao giusto da Dio.
Per a defeisa donque dro paeise,
adornao da ste bonne qualitæ,
in campagna se misse con sta coæ:
ò moì combattendo ò fà dre preise.
Mille benedizioin a moen desteise
frattanto ghe pregava ra sittæ,
che d’in pò in pò sentiva e sbattuggiæ
da lè dete a’i todeschi, moæ ciù inteise.
E giusto comme fà l’argento vivo,
che nell’istesso loeugo mai sta sodo,
così o l’ea sodo lé, comme o descrivo.
Quando ciantao da un bricco comme un ciodo,
quando da l’atro con ro pæi furtivo
ro veivi, e no son mi che si ro lodo.
Son re sò gren virtù che, comme stelle,
per sempre han da resplende e mai moì,
ne i marmai e l’istoia in avvegnì,
fin che no vegne o mondo unna Babelle.
Ma no me voeuggio chì rompì e marelle,
se no me scappa tutti i desertoì,
feii, remissi con ri guastadoì
da lé boscæ in queste parte e in quelle.
A Zena voì sentivi ogni pittin:
è arrivao da-a Scoffera unna brigà
de prexoné, piggiæ da-o sciô Peiin.
E nell’istesso tempo, a tutt’andà,
voxava intra sittæ grendi e piccin:
viva pe sempre Peiin Cannevà.
Ma ohimè, che zà me pà vedde a cometa
dro prognostico amao messaggea,
che a quattro a quattro e lagrime sciù a cea
me fa vegnì e ra mæ mente inqueta.
Nè ro prinsipio sa capì, nè a meta
dro caxo scì impensao e sorte fea,
che, quanto ciù ne voeu formà l’idea,
ghe dixe ro pensé: fermate e queta
Tutta questa de Dio fù vorentæ,
contro dra quæ a nissun léssito è andà
e ognun deve baxà sfersa e sfersæ.
Chi sa che ne ro voei ciù in là passà,
ro nobile guerré per fà a sò coæ,
n’avessimo noì perso o personà.
Ro racconto dro quæ e dura sorte
ben che o rennoeuve a ro mæ coeu dorò,
e me fazze cangià dro tutto coò,
no ro posso taxei, nè cian nè forte.
Così essendo a cavallo co’e sò scorte,
doppo avei feto co’i nemixi foò,
un de quelli remissi, da treitò,
co’unna pistolettà ghe dè ra morte.
Ah, canna scelleadda, ommo perverso,
che avesci tanto ardì de fà sto sfrixo
a zovenetto nobile sì eccerso.
Che tutti noì speemmo ao Paadiso
loeugo servao per rende in groia immerso
un spiito abbrassao co’o Crocifiso.
Traduzione italiana
La Scoffera d’inverno è inabitabile, perchè la neve l’ha presa in affitto, e chi non ha più che il fuoco nel panciotto si guardi dall’andare da quelle parti. Eppure, per combattere i nemici che accorrono lì come le mosche fu necessario mandarvi una guarnigione comandata da Pierino Canevari. Cavaliere così pio e pieno di iniziativa che avrebbe saputo guidare l’esercito di Serse. E la sua truppa lo acclamava al grido di caritatevole, giusto e misericordioso, come un uomo mandato proprio da Dio. Dunque, per difendere il paese, adorno di queste buone qualità, scese in campo con questo desiderio: o morire combattendo, o ottenere buoni risultati. Mille benedizioni a mani tese frattanto gli pregava la città, a mano a mano che sentiva delle batoste incredibili da lui inflitte ai tedeschi. E proprio come fa l’argento vivo, che nello stesso luogo mai sta fermo, così faceva lui, come lo descrivo. Ora potevate vederlo fermo su di un monte, piantato come un chiodo, ora su di un altro con fare furtivo, e non sono io che così lo lodo. Sono le sue grandi virtù che, come stelle, per sempre devono risplendere e mai morire, nei marmi e nella storia in avvenire, finchè non divenga il mondo una Babele. Ma qui non vi voglio infastidire, sennò dimentico tutti i disertori feriti e i guastatori da lui catturati in un luogo o nell’altro. A Genova voi sentivate ogni momento: È arrivata dalla Scoffera una brigata di prigionieri catturati dal signor Pierino! E allo stesso tempo gridavano in città grandi e piccini: Viva per sempre Piero Canevari! Ma ohimè che già mi pare di vedere la cometa messaggera dell’amaro pronostico: le lacrime mi scorrono sul volto in quantità e la mia mente inquieta non sa capire nè lo scopo nè la meta di un caso così impensato e morte crudele, e quanto più vorrebbe formarsene un’idea, il pensiero le dice: Fermati e quieta. Tutto ciò fu volontà di Dio, alla quale nessuno può opporsie tutti dobbiamo baciare il bastone e le bastonate. Forse, desiderando andare oltre, il nobile guerriero volle farci un altro onore. Il racconto di tanta sciagura, sebbene rinnovi dolore al mio cuore e mi faccia impallidire, non posso assolutamente tacerlo. Essendo a cavallo con i suoi, dopo essersi scontrato con i nemici, uno di questi prigionieri, a tradimento, con un colpo di pistola gli diede la morte. Ah, arma scellerata, uomo perverso che avesti tanto ardire di fare questo oltraggio a un giovinetto così nobile ed eccelso. Tutti noi speriamo vi fosse in Paradiso un posto già pronto per accogliere, immerso nella gloria, un tale spirito abbracciato al Crocifisso.
[2] La Scoffera.