Gian Giacomo Cavalli (1590–1658)
Gian Giacomo Cavalli è considerato il maggiore poeta in genovese di tutti i tempi; nato verso la fine del secolo sedicesimo e morto nel 1658, ci si presenta con tutte le virtù e tutti i difetti dell’età barocca. Non sarà un caso se il massimo splendore della poesia ligure viene toccato con il concettismo, che in italiano – al contrario – ha potuto dare vita solo alle contorsioni insipide e lambiccate di G.B. Marino e dei suoi seguaci. Forse la lingua ligure, così concreta per sua natura, è più utile dell’italiano ad esprimere i concetti più astratti e più sottili, usando le parole di tutti i giorni e ottenere così, per contrasto e cortocircuito, la poesia; lo stesso è stato detto dell’inglese di Shakespeare e John Donne, le cui metafore e ragionamenti arditi – secondo alcuni – sarebbero stonati al di fuori della loro lingua nativa.
Il barocco nasce con le prime grandi crisi del mondo moderno; il pensiero di Pascal e di Cartesio, la Riforma e la Controriforma seminano dubbi nell’uomo di allora, che inizia ad essere tormentato dalla mancanza di senso della vita. E il Cavalli ci parla proprio di quest’ansia così moderna, sotto la finzione della poesia petrarchesca delle pene d’amore, in una fusione perfetta tra forma e sentimento, dove la passione amorosa è, sì, un pretesto per scrivere un pezzo di bravura, ma non può neppure essere detta veramente falsa, poiché assume una sua verità grazie all’arte del poeta; ci piacerebbe la descrizione della lucciola anche se le sofferenze del Cavalli fossero tutte inventate, perché tutti in qualche momento siamo stati sbalestrati qua e là dal destino o dalla passione.
Il Cavalli porta avanti anche la tradizione degli encomi dogali, e anche lì tocca delle cime mai toccate prima; per noi non ha importanza se i principi cantati dal Cavalli meritassero realmente il suo elogio; ciò che conta sono le figure ancora oggi fresche e vive della sua immaginazione: le ombrine, i branzini, il bronco, la murena, le anguille e gli altri pesci che festeggian l’elezione a Doge di Giorgio Centurione, facendo «scherzi e stravaganze da stupire» in una fantasia marinaresca che rimane nella memoria del lettore.
Partensa per marinna
Partì da ra sò vitta,
Cara bella, oh che morte,
A carta, ò calamitta,
Confià ra sò sorte
Oh, che affanno, oh che vive,
duro da immaginà, no che da scrive.
Parto, ve lascio, oh Dio,
in quenti squarsi , e parte
l’annima in dive adio
se me strassa e se parte;
Unna stissa d’inchiostro
Com’è bastante à di quanto son vostro?
Son vostro ò Bella Cara;
Sarò vostro in eterno.
L’Annima in ogni cara
Farà vitta d’inferno,
Larga da ri vostri oeggi
che farala de care, ni de scoeggi?
Frusta, languida, smorta
da tutt’ore dolente,
L’odirei lì a ra porta,
Spirito impatiente,
Repricave in prezensa
Quello ch’a ve protesta oura in partensa.
Che a vuoi sola nassua,
Per vuoi sola a respira;
Che ro loego ch’a mua
Nò porrà moæ partira
Da ro sò proprio loego:
Da vuoi foera dra quà l’è dent’ro foego.
Ma zà sento ro tiro,
Cangio ro canto in chienti;
Mando questo sospiro;
Vaggo pe ri mæ venti;
Amò, che bella festa?
Comme posso partì, se ro cuoe resta?
Letto da Alessandro Guasoni
Traduzione italiana
Partirsi dalla propria vita
cara bella, oh, che morte!
A carta e calamita
affidar la propria sorte
Oh, che affanno, oh, che vivere
duro da immaginare come da scrivere.
Parto, vi lascio, oh Dio
in quanti squarci e parti,
l’anima in dirvi addio mi si squarcia e si divide.
Una goccia d’inchiostro
com’è bastante a dir quanto son vostro?
Sono vostro, o bel viso,
sarò vostro in eterno
l’anima in ogni baia
farà vita d’inferno
lontana dai vostri occhi,
che se ne farà di baie e di scogli?
Consunta, languida, pallida,
sempre dolente
l’udirete alla porta
spirito impaziente
replicarvi in presenza
ciò che vi proclama ora partendo:
che nata solo per voi
solo per voi respira
e che il luogo che cambia
mai potrà allontanarla
dal suo proprio luogo:
da voi, lungi dalla quale è come nel fuoco.
Ma già sento il richiamo,
cambio il canto in pianti;
mando questo sospiro
vado verso il mio destino.
Amore, che bella festa?
Come posso partire, se il cuore resta?
Patì per gove
Pù che Amò me fasse vei,
oeggi belli desperæ,
quelli sguardi un dì cangiæ,
onde poei,
se vorei,
fà ri cuoe resuscitæ,
sæ per mi ra pietæ morta:
no m’importa.
Seimi rigidi in barcon
se me vei pe ra contrà;
in re veggie fæme fà
l’arbicon,
stæme in ton,
senza moeve ò parpellà;
pertuzæme ogni momento,
son contento.
Gusterò d’esse giassòu
pe re bocche dri Citten;
d’esse foera dri mezen,
ballezòu
mordiggiòu,
com’appointo
d’esse à tutti ro sorasso,
ro scovasso.
Ma se un dì me compatì,
che cangiæ con mi latin,
che mi monte ro scarin,
de poei dì,
che aggradì
ri mæ stenti in sciù ra fin,
oh, che amàreghi ben speixi,
che Pareixi.
Letto da Alessandro Guasoni
Traduzione italiana
Purché Amore mi faccia vedere,
occhi belli disperati,
quegli sguardi un dì mutati
onde potete, se volete,
far i cuori resuscitare,
sia per me la pietà morta,
non m’importa. Siatemi rigidi alla finestra,
se mi vedete per la strada;
nelle veglie fatemi fare
la figura dello sciocco,
statemi severi,
senza muovere o lappoleggiare;
trapassatemi ogni momento,
son contento. Godrò d’essere deriso
sulle bocche dei borghesi;
d’essere fuori dalle case
bersagliato,
mordicchiato,
veramente
d’essere per tutti
il sollazzo
il pagliaccio (letteralm. «la scopa da forno») Ma se un dì mi compatite
e cambiate modo di trattare,
sì ch’io salga tale scalino,
da poter dire
che gradite
infine i miei stenti,
oh, bene spese amarezze,
quali paradisi!
Rossignuoe
In molti casi le canzoni del Cavalli riecheggiano le melodie del conterraneo e contemporaneo Gabriello Chiabrera, che in più occasioni gli attestò stima.
Rossignuoe, che a son de chienti,
de lamenti,
ti pertuzi ra boscaggia,
che gran raggia,
che gran spinna,
te pertusa e t’assassinna?
Æla amò che, per bonombra,
forsi all’ombra
se trategne sotto l’ara
ra tò cara?
O martello
ch’a te dagghe d’atro oxello?
Se l’è questo ro tò sdegno,
semmo à segno,
no te manca compagnia;
girosia,
comme tie,
m’assassinna mi assie.
Femmo donca à ra foresta
dro mà festa
tra ri treppi d’este ramme;
ognun chiamme
ra sò bella,
ra battezze per rebella
E se à caso a no responde,
s’a s’asconde,
carreghemmoghe ri panni
con maranni;
s’a se muoeve
ti ni mi, no se descruoeve:
E se, missa all’accimento,
quarche chiento
ghe notassimo, o sospiro,
femmo un tiro,
demmo un crio,
con pagara d’un adio.
Letto da Alessandro Guasoni
Traduzione italiana
Usignolo che, con i tuoi pianti
e lamenti
buchi la boscaglia,
quale rabbia,
quale spina
ti trafigge e ti assassina?
Forse è Amore che per scherzo
all’ombra
trattiene sotto l’ala
la tua cara?
O tormento
ti dà a causa d’un altro uccello?
Se è questo il tuo sdegno
siamo a posto
non ti manca compagnia
gelosia
come te
assassina anche me.
Nella foresta facciamo dunque
conto che il male sia una festa
tra gli scherzi di questi rami;
ognuno chiami
la sua bella
e la chiami leggera.
E se per caso non risponde
se si nasconde
carichiamola di improperi
se si muove
nè tu nè io scopriamoci.
E se, così punzecchiata,
qualche pianto
notassimo in lei, o sospiro,
giochiamole un tiro
diamo un grido
pagandola d’un addio.
Chiarabella
Chiarabella,
luxernetta,
lanternetta,
stella picciena ma bella,
chi te ghia
fantasia
de passà così l’humò
ò chiù tosto ro tò Amò?
Quello raggio
de lumetto
così netto
ælo lumme da viaggio,
ò gioiello
per anello;
æla pria da ligà;
ælo fuoego, ò pù o ro pà?
Se l’è fuoego
bordellinna
o no strinna?
Come fato à trovà luoego?
Ti verezzi?
Ti garezzi?
Ti te poæri d’esse in Cé
con l’Inferno de derré?
Bella sorte,
bià tie,
così mie
mi ch’Amò me dà ra morte
mi ch’un forno
noette e giorno
in mæ vitta ho da patì,
ni me spero moæ d’uscì.
Figatella,
ferma, aspissa
unna stissa
à ra tò ra mæ faxella,
perché a luxe,
ma no bruxe
à ra crua chi ha tanta sæ
dro mæ fuoego, e no ro cræ
Letto da Alessandro Guasoni
Traduzione italiana
Lucciola,
lucernetta,
lanternetta
stella piccola ma bella,
chi ti guida,
la fantasia,
di spassartela così
o piuttosto il tuo Amore?
Quel raggio di lumicino
così chiaro,
è esso un lume da viaggio,
o un gioiello
per anello;
è pietra da legare;
è fuoco, o solo lo sembra?
Se è fuoco,
birichina,
non scotta?
Come puoi riposare?
Veleggi?
Galleggi?
Ti sembra d’essere in cielo
con l’inferno dietro?
Bella sorte,
beata te,
e così io lo stesso,
io, cui Amore dà la morte,
io, che un forno
notte e giorno
in mia vita ho da patire,
né mai spero d’uscirne.
Tesoruccio,
ferma, accendi
un po’
alla tua la mia torcia,
perché brilli,
ma non bruci,
alla crudele che ha tanta sete
del mio fuoco, e non lo crede.
Rondaninna
Rondaninetta,
che inanzi giorno
pe ro contorno,
grillarinetta,
ti chiarli tanto
ferma un tantin ro canto.
Ti sæ che l’hora
dra mæ chiù cara,
quanto à desciara
no passa ancora.
Che fin t’indue
dunca à fara stà sciùe?
Forsi ro fæto
perché increscioza,
fastidioza,
s’heri a m’ha dæto
un dì de spinne
ancuoe ch’a m’assassinne?
O pù per gusto
che Amò chi ingrassia,
chi se sganassia
dro tò desgusto,
haggie ra pæsta
de veite in tanta festa?
Taxi pestummo,
che ri tuoe chienti,
ri tuoe lamenti,
ghe san de fummo,
lé se ne rie,
ti no dormi, nì mie.
Letto da Alessandro Guasoni
Traduzione italiana
Rondinella,
che anzi giorno
tutto attorno,
così vivace,
chiacchieri tanto,
ferma un poco il tuo canto.
Tu sai che l’ora
di destare la mia più cara
non è ancora arrivata.
Che fine t’induce
dunque a farla alzare?
Forse perché se ieri
incresciosa,
fastidiosa,
mi ha dato
una giornata di spine
temi che oggi mi assassini?
Oppure per divertirti,
sì che Amore che ingrassa
e si sganascia
del tuo dispiacere
si affligga
di vederti così in festa?
Taci piccina,
ché i tuoi pianti,
i tuoi lamenti,
per lei sono fumo,
lei se ne ride,
tu non dormi, e io neppure.
Donna, serpente de l’inferno crùa
Un puritano orrore della donna, vagamente controriformista e masochistico, compare in alcuni versi del Cavalli, ma ci vuole poco a capire che anche la descrizione dei tormenti d’amore è pretesto per i suoi raffinatissimi virtuosismi stilistici.
Donna, serpente de l’inferno crùa,
uscìa da ro profondo de l’abisso
per métteme à sbaraggio e in compromisso
l’annima in terra per ro Cé nassùa.
Donna, à ro mondo, posso dì, vegnùa,
come Domenedé forsi ha permisso
per tormentame e fame in breve schisso
ro retreto d’unn’annima perdùa.
Zà che re mæ pecchæ me han condannòu
à così agra e dura penitensa
de pregà sempre un marmaro incarnaou,
sbatto in terra à ra fin dra patiensa,
e de tanti sospiri c’ho buttaou
ve demando ra morte in recompensa.
Letto da Alessandro Guasoni
Traduzione italiana
Donna, serpente dell’inferno crudele,
uscita dal profondo dell’abisso,
per sbaragliarmi e compromettere
in terra l’anima nata per il cielo.
Donna, venuta al mondo, posso dire,
con il permesso di Dominedio,
per tormentarmi e mostrarmi in breve
il ritratto d’un anima perduta.
Già che i miei peccati mi hanno condannato
a così aspra e dura penitenza
di pregare sempre un marmo fatto carne,
cado a terra alla fine delle mie forze,
e dei tanti sospiri che ho gettato
vi domando la morte in ricompensa.
Ballin, ambasciaou dri pescoei à ro Serenissimo Zorzo Centurion, Duxe dra Repubrica de Zena
In questa celebre ode per l’elezione di Giorgio Centurione alla suprema magistratura della Repubblica di Genova, Cavalli dispiega tutta la sua abilità retorica e poetica, se è poesia anche una straordinaria capacità tecnica e linguistica nella costruzione dei versi. Come fa osservare Toso, «tutto l’immaginario dell’ode è di fatto costruito su immagini e metafore artificiose dove la natura evocata ha in realtà pochissimo spazio». Ma si potrebbe dire che la celebrazione del Doge è per il Cavalli un pretesto per mettere in mostra la sua maestria, benché non manchi una presa di posizione politica in favore della corrente senatoriale repubblichista, di contro ai sostenitori d’un cambiamento in senso assolutista nel governo dello Stato. Il doge è, infatti, per il Cavalli e per i repubblichisti, il padre del popolo, ed è stato posto da Dio a capo della Repubblica per comandare in vece del popolo, cui spetta la sovranità, ma che da solo non sarebbe in grado di esercitarla. Ma ciò che anima veramente la poesia del Cavalli, al di là del tema trattato, è sempre la sua ricerca di immortalità letteraria, procurarsi una fama che oltrepassi la morte.
Da questi scuoeggi e care chiù vexinne,
onde spesso re ægue contrafæte
in campagne de læte
poeran chiappe de spegio crestalinne,
ond’oura à puinto pà
addormìo com’in letto in mà ro mà,
se non se tanto ò quanto ra sò paxe
desturba lenguozetto
quarche maroxeletto
chi pà chi innamoròu l’erbetta baxe,
tiròu da tanta luxe,
Serenìssimo Duxe,
ch’oura de nuoevo spande ra cittæ,
vegno, e m’inchinno à tanta maestæ.
Chi me sæ, ve ro dixe per menùo
quest’abito, esto pescio, esto cestin:
ro mæ nomme è Ballin,
pescòu per quarche famma conossùo;
Ballin matto attretanto
dra fóssina e dra ræ comme dro canto;
ro fin perché à ri pé ve vegne à cazze
è à fave donativo
d’esto pescio ancon vivo
à nomme dri pescoei dre nòstre chiazze,
ò chiù presto per segno
per tributo ò per pegno
dro nòstro bon affetto, appresentave
con questo don, dri nòstri cuoe ra chiave.
Parlo in nomme de tutti; son ben cærto
Gran Duxe, che parrà tròppo arrogansa,
per no dì confianza,
l’ardì mi òura d’arrivà tant’ærto,
che ri scettri e coronne
no se confan con pòvere personne;
ma nuoi , ch’à penna d’in Levante uscìo
ro só veghemmo in fronte
à ra chiazza, à ro monte
indeferentemente compartìo
pà ch’aggiemmo a certessa
in ra nòstra bassessa,
che ra mesma raxon milite e voære
con nuoi, de chi sei só, de chi sei poære.
Ra famma che de vuoi sentimmo spande,
Serenìssimo Duxe, d’ogn’intorno,
chiù chiæra che ro giorno,
chi s’ode resonâ da tente bande;
ro nomme chi ne svoera,
non che tra nuoi, pe re cittæ de fuoera,
come sen cose assæ de ræro inteize,
prodùan all’oreggia
stupó e maraveggia
da fà re mente attònite e sospeize;
se non che tutt’à un tratto,
pratticàndose in atto,
re miriuin dre vòstre varentixe
s’an per chiù grende assæ che no se dixe.
Oh, se un giorno con nuoi così da parte
lasciando per un pòco ro paraxo,
fuoissi presente à caxo
vuoi mesmo, à poei sentine quarche parte,
quando tutti de venna
discorrimo assettæ lì sciù l’arenna;
ò pù se ro gròu vòstro comportasse,
così per favorine,
con l’oeggio da seguine,
pe re care dri trémaggi e dre nasse;
che sentissi ri parli,
re prédiche e ri chiarli,
che femmo attorno d’ògni vòstro fæto
vuoi mesmo resteressi stupefæto.
Chi ve prica per òmmo de gran pieto,
chi per un Marte valoroso e fòrte,
Repubrichista à mòrte;
chi per un Salamon savio e discreto,
chi per un ræro scrittó,
chi per eloquentìssimo orató:
zughemmo à chi puoe chiùe sentì ch’ognun
fà de vuoi tanto cuinto
come se fuissi à puinto
un Sant’Eremo in mà, non che un Nettun;
aggiustemmo per pruoeva
che in vuoi solo s’attruoeva
tutte quelle virtù d’accòrdio unìe
che ri atri an tra tutti compartìe.
Un pòrta in Cé con tìtolo d’eterni
tanti suoi de Commissariati
per Paraxi e Senati,
in tant’atre vexende de Governi,
atri pòrtan per spegio
ra franchixe à voi dæta in privilegio;
atri van chiù avanti, incomensando
fin quando eri figiuoe,
con dì ch’ei mostròu cuoe
sempre d’esse nassùo pe ro comando;
in fin tra ló s’accòrda
tutti unii à unna còrda
che dra vòstra virtù chiù degno impiego
ra coronna saræ d’un mondo intrego.
Così, con fà dre moen mille forvoì,
l’un per l’atro à regatta invidioxi,
v’èrzan comme à maroxi,
re montagne dre laude e dri onuoì
nì se pà d’esse lé
chi no ve mette sciù ri sette Cé;
e spesso avven, che se in passando sente
questa gran parlaxìa
ò fregatta ò tarchìa
chi arrive da Levante ò da Ponente,
dæto lì sciù re vòtte,
così à remme maròtte,
quarche paræ per muoeo de barchezzo
s’accòstan ló assì tutti à un bolezzo.
Dìxan ch’an chiù re còrte forestere
in reverensa e veneration
Zòrzo Centurion
che no l’à Zena mesma e re rivere;
che fassemmo argumento
che se chì dìxan un, là dìxan cento.
Òura nuoi, chi s’odimo in sciù ra chiera
laodà còse laodemmo,
còse intro cuoe portemmo
confermaro per còsa tanto vera
pensæ vuoi, signor caro,
se in nuoi demmo gustaro,
se tutti quenti à crìo de sciabegòtti
demmo fàseve màrtiri devòtti.
Che chiù? Còse digh’òura d’avantaggio
nuoeva à mi, da che tratto ra marinna:
de sciù ra fregatinn-a
stava à puinto tirando ro resaggio
ro dì che à questo gròu,
Serenìssimo Duxe, foissi asòu,
quando à ro rebombà, che fæ ra valle
dri tiri dre fortesse
dre pùbriche allegresse,
pe re tanne dri scuoeggi da re spalle
vì mi con questi oeggi
giubilà pe ri scuoeggi
re gritte, ri cornetti, e ri ronseggi
ballà, fà ló assì ri suoe conseggi.
Vì sott’ægua ro zin méttese à sesta,
e per no comparei così spinoso
fæto giudiciozo
con re lanse asbassæ corre à ra festa;
vì ri faoli e patelle
fà chì e lì balletti e bagatelle;
là se veiva ro porpo e chì ra seppia
òura tutti asbassâse,
òura tutti drissase,
e in muoeo de contegno erze ra greppia;
chì re stelle dro scuoeggio
con ra coa de l’oeggio
vòtte à ro cé desfià quelle à guerra
con dì: «Se un Zòrzo è in cé n’é un atro in terra».
Maraveggie, e stupuoi no chiù sentii,
pe ra riva dro mà vei corre à sguasso
l’ombrinna e ro loasso
comme, per così dì, matti spedii,
fà per tutto cabille
ro gronco, ra murenna e re anghille,
ro mùzaro, ro pàgaro gentì,
l’orà, ro dentexòtto,
l’oggià, ro nazellòtto,
fà treppi e stravaganse da stupì;
stà lì comme passuin
ri tonni e storiuin
in muoeo da crià vòtti à ra riva:
«Zòrzo Centurion viva, e straviva».
Còse, in somma, signor, che s’òura odisse
mi mesmo quarch’un atro raccontare
tremeræ d’ascotare
non che de crære, solo se re visse;
diræ che tra poeti
s’uzan per fòre e diti consueti;
pù, da puoe ch’à notà sì gren misterii
à vossùo deputame
ra sòrte, e destiname,
re refero in sò gròu per Evangerii;
resta dunque concrùe,
da ro manco à ro chiùe,
quando ne tocche à nuoi mostrave affetto
se ro fa ri annimæ sensa intelletto.
Ma perché ro vorei pescà chiù à fondo
ro mà dri vòstri onoì, de sò natura
cruoezo fuoe de mezura,
saræ ra mòu temeritæ dro mondo,
resto con offerive
per schiavi ri pescoei dre nòstre rive,
ri quæ ve prégan con re brasse in croxe
tutti, comme conven
per l’ùtile, e ro ben,
pe ra prottetion de queste foxe,
sì comme v’offerimmo,
e Ballin pe ro primmo
in servixo dra Patria e dra Coronna
re famiggie, ra ròba e ra personna.
Restæ dunque felise,
mentre ch’òura in partise,
chiù assæ con ro cuoe che in apparensa
Ballin ve fa profonda reverensa.
Traduzione italiana
Ballin, ambasciatore dei pescatori, al Serenissimo Giorgio Centurione, Doge della Repubblica di Genova
Da questi scogli e spiagge più vicine,
ove spesso le acque, trasformate
in campagne di latte
paion lastre di specchio cristalline,
ove ora appunto sembra
che il mare, in mare, sia addormentato come in un letto
– se non fosse che, di quando in quando, la sua pace
è turbata da qualche petulante
piccolo flutto
che, innamorato, pare baciare l’erbetta –
attratto da tanta luce,
Serenissimo Duce,
che or nuovamente sparge la città
vengo, e mi inchino, a tanta maestà.
Chi io sia, ve lo dice minutamente
quest’abito, questo pesce, questo cestino:
il mio nome è Ballin,
pescatore d’una certa fama.
Ballin, matto altrettanto
della fiocina e delle reti come del canto;
lo scopo per il quale sono venuto a cadere
ai vostri piedi
è quello di farvi dono
di questo pesce ancor vivo
a nome dei pescatori delle nostre spiagge,
o, meglio ancora, quello di darvi un segno,
tributo e pegno
del nostro vero affetto, e di offrirvi,
con questo dono, la chiave dei nostri cuori.
Parlo a nome di tutti, son ben certo,
o grande Duce, che parrà troppa arroganza,
per non dire confidenza,
l’ardire io oggi d’arrivar tanto in alto,
ché gli scettri e le corone
non si confanno a povere persone;
ma noi che, appena comparso ad Oriente,
vediamo il sole
equamente diviso
davanti alla spiaggia ed al monte,
par che abbiamo certezza,
nella nostra bassezza,
che la medesima ragione militi e valga
presso di noi, dei quali siete il sole, dei quali siete il padre.
La fama che di voi sentiamo spargersi,
Serenissimo Duce, in ogni luogo,
più chiara del giorno,
che si ode risuonare da tante parti;
il nome che trasvola,
nonché fra noi, nelle città straniere
quali sian cose assai di raro intese
producono all’orecchia
stupore e meraviglia
da far le menti attonite e sospese;
sennonché, tutt’a un tratto,
manfestandosi in atto,
i milioni delle vostre valentìe
si rivelano più grandi assai che non si dica.
Oh, se un giorno con noi un po’ in disparte,
lasciando per un poco il Palazzo,
foste per caso presente
voi stesso, ad udire in parte
quando tutti siamo in vena,
e parliamo seduti lì sulla sabbia;
oppure se il grado vostro tollerasse,
tanto per favorirci,
di seguirci con lo sguardo
durante la calata dei tramagli e delle nasse;
e poteste udire i discorsi,
le prediche e i commenti
che facciamo attorno ad ogni vostro fatto
voi stesso rimarreste stupefatto.
Chi vi esalta come uomo di grande pietà,
chi come un Marte valoroso e forte,
strenuo Repubblichista;
chi come un Salomone saggio e discreto,
chi come raffinato scrittore,
chi come eloquentissimo oratore:
giochiamo a chi più riesce ad ascoltare come tutti
vi tiene in tanto conto
come se foste appunto
un Sant’Elmo in mare, nonché un Nettuno.
Adduciamo qual prova
che in voi solo si trovano
tutte quelle virtù concordemente unite,
che gli altri si dividono tra loro.
Vi è chi innalza al Cielo, con titolo d’eterni,
tanti sudori di Commissariati,
per Palazzi e Senati,
e in tant’altre vicende di Governi,
altri adducono a prova,
la franchigia a voi data in privilegio;
altri vanno oltre e cominciano
da quando eravate bambino,
dicendo che avete dimostrato
sempre d’essere nato per il comando;
infine tra loro s’accordano
tutti uniti all’unisono
che più degno impiego della vostra virtù
sarebbe la corona d’un mondo intero.
Sicché, facendo con le mani mille fervidi gesti,
gli uni e gli altri, in invidiosa gara,
vi ergono, come ad ondate,
montagne di lodi e di onori,
e non è contento di sé
chi non vi porta ai sette cieli;
e spesso accade che passando odano
questo gran parlare
i marinai d’una fregata o d’una tarchia
proveniente da levante o da ponente;
dopo aver dato, indugiando,
così a remi rovesciati,
qualche colpo, in modo da barcheggiare,
s’accostano anche loro a chiacchierare.
Dicono che le corti forestiere
hanno riverenza e venerazione
Giorgio Centurione
più di quanto ne abbiano Genova stessa e le riviere:
che stiamo bene attenti
che se qua diciamo uno là dicono cento.
Allora noi, che ascoltiamo
lodare apertamente
ciò che noi stessi lodiamo,
pensate voi, signor caro,
se ne siamo lieti,
se tutti quanti, ad una sola voce di sciabicanti,
dobbiamo farci vostri testimoni devoti.
Che più? Un’altra cosa dirò adesso,
nuova per me, dacché vado per mare:
da sopra la mia barchetta
stavo appunto ritirando il rezzaglio
il giorno in cui a questo grado
voi foste elevato, o Serenissimo Duce,
quand’ecco che al rimbombo che fece la valle
delle salve delle fortezze
dei pubblici festeggiamenti,
nelle tane sulle spalle degli scogli
vidi io con questi occhi
giubilare lungo la scogliera
i granchi e le torricelle,
e ballare i murici
e tenere consiglio.
Vidi sott’acqua il riccio agghindarsi
e per non apparir troppo spinoso
fattosi giudizioso
correre alla festa con le lance abbassate;
vidi le grancevole e le patelle
fare qua e là balletti e caroselli;
là si vedeva il polpo e qui la seppia
ora tutti abbassarsi
ora tutti rizzarsi
e in modo contegnoso alzare la cresta;
qui le stelle marine
con la coda dell’occhio
volte al cielo sfidare quelle (del cielo) a guerra,
dicendo: «Se un Giorgio v’è in cielo, un altro ve n’è in terra!»
Meraviglie e stupori mai sentiti
per la riva del mare vedere correre in gran pompa
l’ombrina e la spigola
e, per così dire, pazzi di gioia
fare ovunque conciliaboli
il gronco, la murena e le anguille,
il cefalo, il pagello gentile,
l’orata e il dentice,
l’occhiata e il nasello
fare scherzi e stravaganze da stupirsi;
stare lì come pali
tonni e storioni
in maniera da gridare volti alla riva:
«Giorgio Centurione viva e straviva!»
Cose insomma, signore, che se ora udissi
io medesimo un altro raccontarle
tremerei d’ ascoltarle
nonché di crederle, solo se le vedessi;
direi che tra i poeti
si usano come fiabe e detti consueti;
eppure, siccome a notare sì gran misteri
volle deputarmi
la sorte, e destinarmi
le riferisco a vostra altezza come Vangeli;
bisogna quindi dedurne,
con poca possibilità d’errore
quanto tocchi a noi mostrarvi affetto,
se lo fanno gli animali privi d’intelletto.
Ma poiché il voler pescare più a fondo
nel mare dei vostri onori, di sua natura
baratro fuor di misura,
sarebbe la maggior temerità del mondo
mi limito ad offrirvi
quali servitori i pescatori delle nostre rive,
i quali vi pregano a mani giunte
tutti, come conviene
per l’utile e il bene comune
per la protezione di queste foci,
così come vi offriamo
– e Ballin per il primo –
al servizio della Patria e della Corona
le famiglie, gli averi e la persona.
Restate dunque felice,
mentre congedandosi,
molto più di cuore che nell’atto,
Ballin vi fa profonda riverenza.