Conseggio pe-o patrimònio linguistico ligure

Conseggio ligure

Giuliano Rossi (XVI sec.–1657)

Presentazione a cura di Alessandro Guasoni

Giuliano Rossi, nato a Sestri Ponente nella seconda metà del secolo XVI e morto di peste nel 1657, pratica un tipo di poesia completamente diversa da quella del suo contemporaneo Cavalli; se quest’ultimo è un letterato sottile e sofisticato nella sua ricerca di concetti elaborati, espressi in uno stile elevato, il Rossi vuole invece mostrarsi poeta facile e popolare; è infine l’esponente di una corrente poetica, che oggi chiamiamo propriamente «dialettale» e che in genovese diverrà maggioritaria soltanto alla fine del XIX secolo. La maggior parte della poesia del Rossi, fatta di versi d’occasione, parodie, caricature, e anche di versi amorosi, che scadono volentieri nel comico, è inedita, sparsa in una gran quantità di manoscritti, spesso in contraddizione fra loro. Famoso come intrattenitore, ospite fisso delle case patrizie della Genova di allora, di questa sua attività aveva fatto un mestiere, ma una vita troppo lussuosa lo fece cadere in miseria, fino a fargli conoscere la prigione per debiti. Di fatto, tutta una parte della sua produzione è dedicata alla meditazione sulla miseria umana, come nelle Rime Morali, dove narra della sua esperienza nelle prigioni della Repubblica. Ma anche nei momenti più gravi, il Rossi non rinuncia mai alla battuta comica, tanto che la sua poesia più nota è forse la descrizione della peste del 1657, quella dove perderà la vita, ma qui le sue frecciatine prendono una cadenza da danse macabre, sono il commento amaro, forse anche involontario, alla fine di un mondo di presuntuosi pupazzi, grandi e piccoli, che scompaiono per sempre: «C’è chi tutto il giorno cercando rogne / si toglieva ogni mosca dal naso / e ora non può, sepolto all’aperto, / togliersene milioni che ne ha alle natiche».

Da-e Rime morali

Carzere? Invention dra crudeltè
che ciù giro non ha de dexe passi,
barcon de poca luxe, e doe ferrè,
porton serròu de grossi cadenassi,
machina feta per desgratiè
e morimento pe ri poverassi
onde con mille stratii, e spesso a torto,
l’omo gh’è sotterròu prima che morto.

Tempesta onde se resta infin sommerso
no se puoe fuze de no ghe negà
se zietto no se fa per ogni verso
de quando roba s’ha e dro dinà.
No sei si presto drento ch’avei perso
parenti, amixi e ra vostra masnà,
zovene e figge con ro tempo ancora
van ramenghe per Ziena a ra mall’ora.

No puoei scuoeve un dinà da debituoi
ognun se scusa e dixe ch’o non ha
se cren che muoè no ne deggie ciù inscì
e quest’è ro recatto ch’ha ra cà.
All’incontro virei ri credituoi
satà in campagna subito, se sa,
con sequestri, con estimi, e lizenze
strapassave con mille impertinenze.

Se da casa ve ven quattro boccoin
o gh’è quest’angaria, esto fragiello:
beseugna dane a quelli dre prexoin
chi serve, e chi ha ra cura dro rastiello;
chi manda a fà un servixo a ri garsoin
ne vuoeran quaxi tanto come quello
ch’accatta, se no puoei crià ben forte
che n’hei servixo de nisciunna sciorte.

No puoeiva l’innimigo dra Natura
per fà comm’a l’inferno ro sò verso
trovà contro l’humanna creatura
martirio, nì fragiello ciù perverso,
e se ro stà prexon gran tempo dura
l’ommo o l’é derelitto, e in tutto perso
perchè tutto va in frazzo, e ghe deslengua
nì ghe resta de cado sotto lengua.

Se un marotto l’è in lietto con ra freve,
o se ferio, sempre ha dell’aggiutto,
ro sò mà de gran lunga n’è sì greve
e, in tà caxo, o no ghe duoe per tutto,
o l’ha quarche (…) e spera in breve
uscì de lietto, e puoescia andà per tutto
o l’ha ri suoei continuamenti attorno
che ghe servan, l’assistan nuoette e giorno.

Ma chi è prexon pù troppo ben ghe duoe
tutti ri sentimenti a un a un
cianze ra mente, l’annima, e ro cuoe
senza avei un conforto da nisciun,
no puoe ese servio da ri suoe,
no quieta muoè, se leverà zazun
de suoenno ra mattin, e in veise lì
serròu subito o dixe: meschin mi.

Ri dottoi, ri scriven, ri procuroei
de fave e de mirave ro prosesso
vuoeran dre doppie, e se no re darei
ghe vegnirà ra pura ata un semesso.
Per parlà con ra Rota no ve crei
che baste solamente daghe un piesso;
ro Dottò vuoe ra doppia, e o Procuròu
d’un piesso ghe pà d’ese strapassòu.

Se ra moggè garsonna va à trovà
ro Dottò, ro Scrivan, ro Procuròu
per pregà, per instà, per suppricà
che sò mario sè descarzeròu,
conven ch’a se lasce erze ro scosà,
ch’a fasse cose ch’a n’ha muoè pensòu,
per levà ro mario de prexon
ch’a ghe daghe da fà quell’azion.

Ra spussa e ro fettò ch’è intre prexoin
pestifero da no se puoei soffrì,
ro forò chi fa sento mascarsoin,
tutta ra nuoette che non puoei dormì:
gh’è in somma tante maleditioin,
comm’a l’inferno, è miegio assè finì
ri suoe giorni con dà l’anima a Dio
che stà per longo tempo a sto partìo.

Ma chi puoe spende e spande in scialacquà
per liè no gh’è restreito nì prexoin,
l’è ra prexon come ra taragnà,
chi piggia solo mosche e no moscoin.
Ra prexon s’assemeggia a ra viscà
chi non è feta per piggià farcoin,
ma picceni oxelletti desgratiè,
che viegnan lì per ese puoe mangè.

Ro ricco pe ro ciù n’è muoè piggiòu,
si ben ro sò delitto sarà grave,
s’appresente assè presto, è examinòu
e non è misso manco sotto ciave;
canta, burla, trastulla accompagnòu
tutto ro giorno, e fa vegnì ra nave,
per dì così, de robe de mangià,
no se fa puoescia atro che zugà.

Traduzione italiana

Carcere? Invenzione della crudeltà:
che non ha più spazio di dieci passi
finestra di poca luce, e due inferriate
portone chiuso da grossi catenacci;
macchina fatta per disgraziati
e tomba per poveracci
dove con mille strazi e spesso a torto
l’uomo viene sotterrato prima di morire.

Tempesta dove si rimane infine sommersi
e non si può evitare di annegare
se getto non si fa per ogni verso
di quanta roba si possiede e del denaro.
Non siete ancora dentro che avete perso
parenti e amici, e la vostra famiglia,
ragazze e bambine che hanno ancora tempo davanti a sè
vanno raminghe per Genova in malora.

Non potete riscuotere un soldo dai debitori:
ognuno si scusa, dice di non averne
crede che non dobbiate mai più uscire,
ecco quanto guadagnate dalla prigione.
Al contrario, vedrete i creditori
scendere in campo subito
con sequestri, stime e licenze
e strapazzarvi con mille impertinenze.

Se da casa vi arrivano quattro bocconi
c’è questa angheria, questo flagello:
bisogna darne a quelli delle prigioni
ai secondini e a quelli del parlatorio
Chi manda il ragazzo per una commissione
è costretto a dargli quasi tutto ciò che compra,
altrimenti potete gridare quanto volete
che non avrete servigio di alcuna sorta.

Non poteva il nemico della natura
per fare l’imitazione dell’inferno
trovare contro l’umana creatura
martirio e flagello più perverso.
E se la prigionia dura a lungo
l’uomo è derelitto e rovinato del tutto
perché tutto si consuma
e sparisce, né gli resta nemmeno il caldo sotto la lingua.

Se un malato è in letto con la febbre
o se ferito ha sempre dell’aiuto,
il suo male è di gran lunga meno grave
ed in tal caso non ha dolori in ogni parte.
Ha qualche speranza e pensa in breve
di alzarsi dal letto, e poi andare dove vuole;
ha i parenti sempre attorno
che lo servono e lo assistono notte e giorno.

Ma al prigioniero purtroppo dolgono
tutti i sensi,
piangono la mente, l’anima e il cuore,
senza avere un conforto da alcuno.
Non può essere aiutato dai suoi
non è mai tranquillo, si alzerà insonne
ogni mattina, e nel vedersi lì
chiuso, subito dice: «Povero me».

Avvocati, scrivani e procuratori
per allestire e seguire il vostro processo
vogliono doppie, e se non le darete,
la pratica sarà coperta da un palmo di polvere.
Per parlare con la Rota criminale non crediate
che basti solamente dargli una moneta.
L’avvocato vuole una doppia, e il Procuratore
con una moneta si ritiene offeso.

Se la moglie giovane va a trovare
l’avvocato, lo scrivano, il procuratore
per pregarli, sollecitare, supplicare
che suo marito sia scarcerato
deve lasciarsi alzare il grembiule
e che faccia cose mai pensate
per togliere il marito dalla prigione
deve lasciarsi fare quella cosa.

La puzza e il fetore delle prigioni
sono così pestiferi da essere insopportabili,
il rumore che fanno cento mascalzoni
di notte non vi lascia dormire:
ci sono insomma tante maledizioni
come all’inferno, ed è assai meglio finire
i propri giorni affidando l’anima a Dio
che stare a lungo in quello stato.

Ma per chi può spendere, spandere e scialacquare
per lui non c’è ristrettezza, nè prigione .
La prigione è come la ragnatela
che prende solo mosche e non mosconi.
La prigione somiglia all’impaniata,
che non è fatta per catturare falconi,
ma piccoli uccelletti disgraziati,
che arrivano lì per essere mangiati.

Il ricco per lo più non è mai arrestato,
per quanto il suo delitto sia grave;
si presenta molto presto, viene esaminato
e non viene neppure messo sotto chiave.
Canta, scherza, si trastulla in compagnia
per tutto il giorno, e per così dire
fa arrivare una nave di roba da mangiare,
e non fa poi altro che giocare.

Invençion dra peste

In questo poemetto, Giuliano Rossi narra la terribile pestilenza del 1657, in cui egli stesso doveva poi perdere la vita. La sconvolta visionarietà delle immagini, il gioco di parole concettista, anche in questo caso sono funzionali all’aspro moralismo del poeta; i genovesi vengono castigati per i loro peccati e possono sperare solo nella misericordia divina. In tanta angoscia, sopravvive per sempre nella memoria del lettore quel «rumore infinitissimo di gente», che risuona più volte nella città sconquassata dall’epidemia e dalla malvagità umana.

Frè, nuoi semo intra peste fin’à ri oeuggi
stè pù lontan se puoei, stè pù à Pariggi
e in zenoggion preghè San Dioniggi
chi n’agiutte à scappà da tanti imbruoeggi.
Mi no ve starò à dì che chì Pandora
haggie versòu ro vaso intra Zittè
perchè vorrendo dì ra veritè
no me pà ben de mescciaghe ra fora.
E ra musa in sto caxo aora no canta,
misericordia a cria in ata voxe
e a s’accompagna à pié d’unna gran croxe
con re tenebre ch’han dra zuoeggia santa.
Se vissi ra Zittè in sto tormento
diressi ben che Ziena, n’è ciù Ziena,
oura ch’ognun se purga senza sena,
piggiando per meixinna ro spavento.
A ri zinque de luggio là in Seretto
morì unna viegia chi haveiva dro mà,
subito mòrta ra fen sotterrà
ma a lascià fuoera ro mà dro Loetto.
L’era dri agni assè che questa stria
a l’aveiva un gran cancaro inte l’osso,
eccote che uria buria va a bordosso
doe atre donne che l’aven servia.
Questo fu ro prinzipio dri gran danni
perchè ro lundeman ro sò barbié,
a queste doe l’è andeto puoe derié,
che ra cancrena partorì mal’anni.
Intanto, corpo de mié madonnava,
ra peste piggia pié, e si a no burla,
a scorre San Martin e tutto Sturla,
e perchè l’era Stè lié villezzava.
Comenza ognun a Ziena a straparlà,
chi dixe l’è contaggio chi influenza,
ognun infin vuoe dì ra so sentenza
chi dixe chi no tocca n’è compà.
Chi dixe l’è da Napori vegnùa
intre robe, chi dixe d’in Sardegna.
De dì cos’a poss’esse ognun s’inzegna,
ma in fin no se ne sa cosa segua.
A cresce, intanto, e a fa cose tremende,
stando fin sciù re zimme dra Scoferra,
ven a Bargaggi, e tante gente afferra
che ro Lazaretto fa dre gren faccende.
Se dixe zerto là che ri Bandii
l’haggian portà d’intr’unna fregatinna,
ra quà se truoeva vuoera à ra marinna:
cresce intanto ogni dì morti e ferii.
E dopp’havei Bargaggi stroppiòu
a l’intra in Ziena, e ghe dà drento apruoeo,
Portoeria, Campanà, Carrugio Nuoeo,
e a l’ha deto gran guasto a ro Guastòu.
Chi visse ro sciaratto e ro forò
e dri Spetiè chi meschia e chi chiarbotta!
E perchè ogni casa ha ra sò notta
ra peste gh’intra senza fà d’errò.
Sbatte lì, ma hei assè d’un sbatte d’oeggio,
ro pover’homo, no gh’è chiù remedio
e resta (cosa chi me da gran tedio)
ro zitten aggrippio com’un zeveggio.
Un dri primmi l’è steto Bernardin,
come Archimede morto intra sò arte
e mi ro sò e ve ne fasso parte
che in Cà sò gh’ho trovòu sempre Bubuoin[1].
Chi fuze in villa, chi re robe imballa,
chi se mette in boiria dro scrivan
chi l’arzenio à ro cuoe, chi cose in man
e ogni scaravazzo ha ra sò lalla.

Quanti muoeran che lascian gran sostanza
pe ra quà perdan l’anima dro tutto
e quante gravie creppan senza agiutto
c’han ro figgiuoe ancon vivo dintra panza.
D’unna gran quantitè de beccamorti
sciù l’imprincipio semmo restè privi
e unna gran quantitè de becchi vivi
son arestè de puoira belli morti.
Quanti ghe n’è che questo gran lebecchio
dra peste, sbatte re donne intri scuoeggi
assì portan adosso mille imbruoeggi
e van inaxorie comme scabeccio.
A chi ro puoere, à chi ra muoere abranca
sto mà, à chi ro frè, à chi ra suoe,
e à chi muoe ra menò, ò ra maò muoe,
nissun è figgio dra gallinna gianca

Cose no fè ra peste maledetta,
onde ra mè desgratia ra strascinna.
E s’è trovòu unna morta stamattinna
con un figiuoe ancon vivo chi ra tetta.
Chi va per Zena ätro no se sente
che Beccamorti, sbiri, e Capostradda,
Comissario, Tenente e Cameradda
e rumò infinitissimo de gente.
No se vè solo bùsciore isoré
ch’a ra Consoration fan ro traghetto,
Consoration chi è feta lazzaretto
dro Magistrato chi dra Sanitè.
Chi caze morto senza poei dì bricca,
chi no vuoe beveron chi l’ha intra panza,
chi s’abandonna senza atra speranza,
tristo quell’ommo onde ro mà s’appicca.
In quella casa onde ne muoere un
à poco à poco puoe ghe muoeran tutti:
vuoeran toccà, de netti vegnan brutti,
tanto che no ghe resta ciù nisciun.
Sentì se questa è cosa chi conforta,
in quella casa onde nisciun ghe scampa
o gh’é lì un che subito ghe stampa
Sanitè così longa sciù ra porta.
Ma me mette ra poira intro gippon
o no vei muoè cavalli de retorno
che se ghe van no scampan manc’un giorno
desconsorè da ra Consoration.
Noi ghe veghemmo insendii de saccoin,
de letti, de straponte, de cabben,
no s’adoeuvera Torcia, ma siben
no se vé atro che confusion.
Mormoran atri e pruoevan cose vere
che sè ra setia e cado d’esta stè,
mi l’è unna cosa che mie stento a crè
che pe ro cado unna personna zere.
Basta, so che re pesti dro besesto
Ipocrate guarì zà in chiù d’un luoego,
solo con fà per tutto dro gran fuoego,
ma chi ha carbuoin[2] muoe assè chiù presto.
Ela, ò no ela, veggo che crovemo
intre l’aotonno come fa re fuoeggie,
l’è giustizia de Dio – che no ro vuoeggie! –
per re tante pecchè che commettemo.
O resto hen burle, e non puoe esse atro,
questa potenza ven da ro divin,
nuoi semmo come ri figiuoe piccin,
no se poemo agiutà l’un con l’atro.
Re seporture son deventè fosse,
donde morti ne semmo strascinè,
e ri previ son sbiri deventè,
e son deventè cari re carosse.
Cantà à Dé ro Misereremei
e de fà usure puoe no s’è muoè stanchi?
Poemo pù vei oura nuoi mesmi in Banchi
che Dio ne fà com’o fé zà à ri Ebrei.
In questo tempo ogni virtù se perde,
nè in Arte né in Scienza òura se spende,
e ro musico solo fa faccende
ch’è dra Cappiella dro rastiello verde.
Solo ra scrimia a Ziena se raffinna
massimamente in manezà ro stocco,
che si ben l’è quella de San Rocco
tiran stocchè che passan ra tetinna.
A Zena gh’é dra fame e dri mariolli,
se pe ra peste se bruxan dri lietti
ancon de nuoette in questi caroggetti
pe ra fame se scioran feriolli.
Quante robe introdute senza segno
intra Zittè vegnan per ziffe e zaffe
c’oura intro fuoego fan ro tiffe taffe:
ra farinna dro diao deventa brenno.
Ro mà vuoe intre donne saziasse
e quelli chi gh’han feto sciù refesso
dixan che son chiù deboli de sesso,
e chiù fassili assè d’accoregasse.
Quando lò son marotte o ghe bezuoegna
mostrà se han ro mà giusto in quest’axio,
e veramente à dira in questo caxo
se vé de quelle ch’han dra gran verguoegna.
De grazia no ve stè chiù à descolà
per mostrà solo re spalle ò ro sen.
Perché, s’hei mostròu mà per mostrà ben,
oura mostrerei ben per mostrà mà.
Che l’aria pura i corpi vivi infetta
dixe Galleno, mi no sò donde.
Ma chì, perché no fan re fosse fonde,
ri corpi morti fan re suoe vendette.
Gh’é chi tutto ro dì sercando beghe,
con levase ogni mosca da ro naso,
o no puoe, sepellìo in luoego spaso,
levasene miriuoin, che n’ha à re neghe.
Quanti son seppellìi come ri mori
intro Zietto, e in i erchi deslighè,
quanti mangiando cori son ingrascè
c’houra son missi à ingrascià ri cori.
Nuoi de salute no faremo acquisto,
né con triacca né con atro inchiastro,
ne puoe cavà da questo gran desastro
solo se n’è ro Coxin de Cristo.
Pietoso Dio da questa gran moria
sarvene perché femmo penitenza,
dre mè pecchè fermè ra gran sentenza,
misericordia, Vergine Maria.

[1] Bubboin: anche oggi diciamo bugna per intendere un lavoro fatto male.
[2] carbuoin: tumori rossicci che facevano presagire una prognosi ancor più infausta.

Traduzione italiana

Fratelli, noi siamo nella peste fino agli occhi
state pur lontani se potete, state a Parigi
e in ginocchio pregate San Dionigi
che ci aiuti a sfuggire tanti pericoli.
Io non vi starò a dire che Pandora
abbia versato il vaso nella città
perchè volendo dire la verità
non mi pare bene mescolarvi la fiaba.
E la musa in questo caso ora non canta
misericordia grida ad alta voce
e si accompagna ai piedi d’una gran croce
con tenebre da giovedì santo.
Se vedeste la città in questo tormento
ben direste che Genova non è più Genova,
ora che ognuno si purga senza senna,
prendendo per medicina lo spavento.
Il cinque di luglio là in Seretto
morì una vecchia che aveva del male,
appena morta la fecero sotterrare,
ma lasciò fuori la sua lue.
Erano anni assai che questa strega
aveva un gran cancro fino all’osso,
ecco d’improvviso muoiono
altre due donne che la servivano.
Questo fu il principio dei gran danni
perchè l’indomani il suo barbiere,
seguì queste due,
ché la cancrena partorì malanni.
Intanto, corpo di mia nonna,
la peste prende piede, e non scherza,
percorre San Martino e tutto Sturla,
e siccome era estate lei villeggiava.
Comincia ognuno a Genova a straparlare,
chi dice che è contagio che si trasmette,
ognuno vuol dire la sua sentenza,
chi dice che chi non se la prende ne è complice.
Chi dice che è venuta da Napoli
nei vestiti, chi dice dalla Sardegna.
Di dire che può essere ognuno s’ingegna,
ma infine non se ne sa cosa sicura.
Aumenta intanto e fa cose tremende,
fin sulle cime della Scoffera,
viene a Bargagli e tanta gente afferra
che il Lazaretto ha un gran daffare.
Si dà per certo là che i Banditi
l’abbiano portata su una barchetta,
che si è trovata vuota sulla spiaggia:
crescono intanto ogni giorno morti e feriti.
E dopo avere rovinato Bargagli
entra in Genova e colpisce
Portoria, Campanale, Carruggio Nuovo,
e ha fatto un gran guasto al Vastato.
Chi vedesse la confusione e lo strepito
e dei farmacisti chi mescola e brontola!
E poiché ogni casa ha la sua ricetta
la peste vi entra senza fare errori.
In un batter d’occhio cade a terra
il poveretto, e non c’è più rimedio,
e (cosa che mi dà gran tedio)
il ricco resta attrappito come un granchio
Uno dei primi fu Bernardino,
come Archimede morto nella sua arte,
e io so bene, e ve ne metto a parte
che in casa sua trovai sempre bubboni[1]
Chi fugge in villa, chi imballa masserizie,
chi si mette in balia del notaio,
chi l’argento al cuore, chi cose in mano,
ognuno ha le sue preferenze.

Quanti muoiono lasciando gran sostanza
per la quale perdono l’anima del tutto
e quante gravide crepano senza aiuto
con il bimbo ancor vivo nella pancia.
D’una gran quantità di beccamorti
siamo rimasti senza, agli inizi,
e una gran quantità di becchi vivi
sono subito morti di paura.
Quante donne sbatte negli scogli
questo gran libeccio della peste,
eppure portano addosso mille pastrocchi
e sanno d’aceto quasi messe in carpione.
A chi il padre, a chi la madre afferra
questo male, a chi il fratello, a chi la sorella,
a chi muore la minore, a chi la maggiore,
nessuno è figlio della gallina bianca.

Che mai non fece la peste maledetta,
dove la mia disgrazia la trascina.
Stamattina si trovò una morta
con un bimbo ancor vivo che la poppava.
Chi va per Genova altro non ode
che Beccamorti, Sbirri, Capostrada,
Commissario, Tenente e Camerata
e rumore infinitissimo di gente.
Non si vedono solo portantine isolate
che fanno il trasporto alla Consolazione,
che è divenuta lazzaretto
del Magistrato qui della Salute Pubblica.
Chi cade morto senza poter dire nulla,
chi non vuole medicine, chi l’ha nella pancia,
chi s’abbandona senz’altra speranza,
misero quell’uomo ove il male si attacca.
In quella casa dove ne muore uno,
a poco a poco muoiono poi tutti:
vogliono toccare, da sani si ammalano,
e così non rimane più nessuno.
Sentite se questa è cosa che conforta,
in quella casa ove nessuno scampa,
qualcuno provvede subito a stampare
sulla porta la scritta "Sanità",lunga così.
Ma quel che mi fa più paura
è non vedere mai cavalli di ritorno,
ché se ci vanno non vivono neppure un giorno
sconsolati dalla Consolazione.
Noi vediamo incendi di materassi,
di letti, trapunte e vestimenti,
non si adopera Torcia e tuttavia
non si vede altro che confusione.
Mormorano altri, e adducono prove,
che sia la siccità e il caldo dell’estate,
ma è una cosa che stento a credere,
che per il caldo una persona geli.
Basta, so che le pesti dell’anno bisestile
Ippocrate guarì già in più d’un luogo,
solo con fare dappertutto molto fuoco,
eppure chi ha carboni[2] muore ancor prima.
Comunque sia, vedo che cadiamo
nell’autunno come fanno le foglie,
è la giustizia di Dio – così non voglia! –
per i tanti peccati che commettiamo.
Il resto sono burle, e non può essere altro,
questa potenza viene dal divino,
noi siamo come i bambini piccoli,
non ci possiamo aiutare fra di noi.
Le sepolture sono diventate fosse,
dove da morti siamo trascinati,
e i preti sono diventati sbirri,
e sono diventati carri le carrozze.
Cantare a Dio il Miserere
e poi non stancarsi mai di fare usure?
Possiamo pur vedere noi stessi a Banchi
che Dio ci fa quel che già fece agli Ebrei.
In questo tempo ogni virtù si perde,
né in Arte né in Scienza ora si spende,
e l’unico a fare affari è il cantante
della Cappella Mortuaria.
Solo la scherma a Genova si affina
soprattutto di maneggiare lo stocco,
ché pur essendo quella di San Rocco
tira stoccate che passano il petto.
A Genova ci sono fame e ladri,
se per la peste bruciano letti,
anche alla notte in questi vicoletti
per la fame si rubano mantelli.
Quante mercanzie introdotte in città
di frodo, senza pagare gabella,
adesso crepitano nel fuoco:
la farina del diavolo diventa crusca.
Il male vuol saziarsi nelle donne
e coloro che vi hanno riflettuto
dicono che è perché sono il sesso debole
e hanno più facilità a coricarsi.
Quando loro sono malate bisogna
che facciano vedere dove hanno male,
e a dire la verità in questo caso
se ne vedono tante che hanno vergogna.
Di grazia, non fatevi più vedere scollate
per mostrare le spalle o il seno.
Perché, se avete mostrato male per comparire bene,
ora mostrerete bene per rivelare il male.
Ché l’aria pura i corpi vivi infetta
dice Galeno, non so dove.
Ma qui poiché non fanno fosse abbastanza profonde
i corpi morti traggono le loro vendette.
C’è chi attaccava briga tutto il giorno
non sopportando il minimo fastidio,
ed ora, seppellito in luogo aperto,
non può levarsi milioni di mosche dalle natiche.
Quanti sono seppelliti come i mori
nei calcinacci e negli archi rovinati,
quanti sono ingrassati mangiando cavoli
e ora a ingrassare cavoli sono andati.
Noi di salute non faremo acquisto
né con triaca, né con altro impiastro,
ci può salvare da questo gran disastro
solo chi fosse il cugino di Cristo.
Pietoso Dio da questa gran moria,
salvateci per lasciarci fare penitenza,
dei miei peccati sospendete la gran sentenza,
misericordia, Vergine Maria.

Da Viaggio à Venexa con Dame

Non si deve dimenticare che la maggior parte della poesia del Rossi è poesia comica e d’occasione; anticipando di secoli il Piaggio e le «scampagnate» del Signor Regina, il Rossi di racconta le avventure del suo viaggio a Venezia, con un gruppo di amici confusionari. Uno dei suoi testi più celebri.

L’anno sinquantasinque in ra saxon
chi porta re serexe per assazzo,
quando canta ra sorfa e ra canson
ri rossignuoe da basto pe ro chiazzo,
un giorno che n’aveimo in concruxon
per divera int’un sciou sette de mazzo,
dixe unna voxe: oh via, che resorvemmo?
Demmo nuoi andà? Ognun responde: andemmo.

Così tutti in fretton chi fa fangotti
chi dà ro sugo, chi sbatte ra pura,
chi stiva borse, chi impe valixotti,
e chi ra lamma e chi ra guenna scura,
chi mette à luoego argenti, amore e got
ti, chi dra borsa e boccolica ha ra cura,
chi serca in un, chi fruga in atro luoego,
va in broddo de faxeu finna ro cuoego.

Chi trà fuoera reverteghe e scosè,
chi accomoda ra chiave à ra cassietta,
e chi fa dàse un bon pà de stivè
chi de pielle sottì, chi de vacchetta,
partendo in fin da Zena invexendè,
cantando ognun da cuoe ra Girometta,[1]
van verso Campi, e Nicheroso intanto
con ra chitarra ri aspieta lì sciù un canto.

Onde che lì, stimandoro un Orfeo,
s’inaxillan re mure dra carrossa
e perché gh’era lì de l’egua à reo
vatt’à piggià re Dame intr’unna fossa
Ad te clamavi in toto corde meo
comensan à cantà con voxe grossa,
ma con camalli e con diversi agiutti,
sciuti ò bagnè andemmo in sarvo tutti.

Traduzione italiana

L’anno cinquantacinque, nella stagione
che porta le ciliegie per assaggio
quando cantano la solfa e la canzone
gli usignoli nella campagna
un giorno, per dirla in un fiato e per concludere
che ne avevamo sette de maggio,
dice una voce: orsù, che decidiamo?
dobbiamo andare? Ognuno risponde: andiamo.

Così tutti in premura chi fa fagotti,
chi dà l’amido, chi sbatte la polvere
chi stiva borse, chi riempie valigiotti
e chi pulisce la spada e chi la guaina
chi mette in ordine argenteria, amole e bicchieri,
chi pensa alla borsa e alle provviste
chi cerca in un posto, chi fruga in un altro
va in sollucchero anche il cuoco.

Chi estrae collarini e grembiuli
chi accomoda la chiave alla cassetta,
chi si fa dare un buon paio di stivali,
chi di pelle sottile, chi di vacchetta,
partendo infine da Genova entusiasti,
cantando ognuno in cuore la Girometta,[1]
vanno verso Campi, e Nicoloso intanto
con la chitarra li aspetta lì su un cantone.

E lì, scambiandolo per Orfeo,
si imbizzarriscono le mule della carrozza
e poiché vi era molt’acqua nei pressi
bisogna recuperare le signore in un fosso
Ti chiamai con tutto il mio cuore
cominciano a cantare ad alta voce,
ma con facchini e con diversi aiuti
asciutti o bagnati andiamo in salvo tutti.

[1] antica canzone, tutta in lode delle vesti di una.