Conseggio pe-o patrimònio linguistico ligure

Conseggio ligure

L’Anonimo genovese (XIII sec.)

Presentazione a cura di Alessandro Guasoni

Colui che chiamiamo il «Dante» dei genovesi e che, a quanto ne sappiamo, è il fondatore della nostra letteratura, ci viene incontro per primo senza avere un nome e lo diciamo «l’Anonimo genovese». Vi fu chi, cercando nei suoi testi, pensò si chiamasse Luchetto, e chi Simone, ma prove sicure non ce ne sono. Forse è meglio così; l’Anonimo non è la voce di un singolo, ma di tutta una città e di un’epoca, quando le virtù civiche contavano più dell’iniziativa di una sola persona. Con lui, siamo ancora ai tempi in cui un poeta poteva incarnare tutta una nazione, senza troppo sforzo; dopo, verranno quelli che rimpiangono «i vecchi tempi». Sempre dopo, quelli che si guardano l’ombelico, e pensano che deve interessare a tutti. Dopo ancora, la ribellione e la bestemmia, l’amore che fa impazzire e la mancanza di significato nella vita. Ma con l’Anonimo siamo ancora agli albori, a un padre che ci dice: «Tu uomo che vai per la tua strada / sano e giovane, fresco e forte / non andare per vie storte / come nave senza guida», a un tale che si entusiasma per le vittorie in guerra del suo popolo, unito nel suo sentire, nelle sue passioni, nella sua concezione del mondo. E sente che Dio è dalla sua parte perché è dalla parte del giusto; prima della battaglia di Curzola, i Veneziani hanno rifiutato tutte le proposte di pace, ma «dove per la ragione non c’è posto, / come hanno scritto i dottori della chiesa / l’uomo può, per difendere il suo diritto, / mettere in gioco le armi». Ma quando i nemici saranno battuti, «il nobile cuore dei genovesi» ne avrà pietà e ne libererà più di quattrocento. E «poiché Dio aveva previsto / che i loro cuori erano avvelenati / e quelli dei genovesi umili / ci diede la vittoria.»

Tu, omo, chi vai per via

L’Anonimo fu un poeta profondamente religioso, dalla visione del mondo moderatamente moralista ed ispirata ad una assoluta fiducia nella giustizia divina.

Tu, omo, chi vai per via,
san e zovem e fresco e forte
non andar per vie torte
como nave senza guia.
Chè, se lo mondo par che ria
e vita longa deporte,
aspeità de’ doe xorte:
o vejeza o marotia.
Donca faza vigoria
no te ingane ni conforte;
ni re’ vento alcun te porte,
donde inderé alcun no sia.
Lavora fin che n’ai bailia
anti ca l’ora te straporte,
donde no se po’ dar storte,
ni aver alcuna aìa.
Tuta la scritura cria:
«poi che seràm serrae le porte,
zà no serà chi te reporte
a remendar chi marvaxia».
E’ no te digo boxia
chi vanamenti te conorte:
se poi tornam gente morte
quelli chi sum passai ne spia.
Amen.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Tu, uomo, che vai per la via
sano, giovane, fresco e forte
non scegliere strade storte
come nave senza guida.
Chè, se il mondo sembra che ti sorrida
e ti prometta lunga vita
devi comunque aspettarti due sorti:
o vecchiaia o malattia.
Dunque falsa vigoria
non ti inganni nè conforti
nè alcun cattivo vento ti porti,
là dove non si torna.
Lavora finchè puoi
prima che l’ora ti conduca
dove non si può scantonare,
nè avere alcun aiuto.
Tutta la scrittura grida:
«quando saranno chiuse le porte,
non ci sarà chi ti riporti
a rimediare al male fatto».
Io non ti dico bugia
che ti esorti vanamente:
chi è trapassato ci è testimone
se mai tornano le persone morte.
Amen.

La profonda ispirazione religiosa di Lucheto  conferisce a certi suoi  versi una grande intensità drammatica. Qui la Madonna narra ad un interlocutore le diverse fasi della Passione di Cristo.

Quando e’ lo vi’ cossì ferir
de pugni, de corpi e de natae,
con tante injurie far e dir,
le carne soe sì tassae,
enspinao e spuazao,
jastemao con gran furor,
scregnio e desprexiao;
a tar vergogna e desonor
tuta de dor me comovei,
lo spirito me somentì,
lo seno e la voxe perdei,
strangoxa’, cazando lì.
Comego eram mee soror
e atre femene monte,
chi vegando esto dolor,
de grande angustie eram ponte;
de le quae fo la Magdalena,
chi pu cha tute, aster mi,
ne portà gran dolor e penna,
per zò che De’ la trasse a si.
Poi, instigando li Zué
chi criavam: «Mora, mora,»
e sacerdoti e pharisé,
fo zugao e traio fora
per lo comando de Pilato;
e lo centrego criava,
con tuto l’atro povoro mato
chi de noxer no cessava.
Jastemando con gran voxe
lo me fijor, sì gamaitao,
constresem a portà la croxe
donde elo devea esser javao.
En quela doze visaura
e su la soa santa testa
de lavajo e de brutura
abondava gran tempesta.
E’, trista maire, lo seguìa,
com le aotre done chi pianzeivam
vegnando in mia compagnia,
chi como morta me rezeivam.
Tam fin, a quelo logo fomo
donde ‘lo fo crucificao,
per lo peccao de quelo pomo
donde Adam fo prevaricao.
A mea vista, in quelo legno
lo so corpo santo e biao
da lo povoro neco e malegno
duramenti fo javao.

Questo era lo me gram dolor
che sostener e’ no poeva;
verme partir de tal fijor,
ni mai aotro no avea!
La mea voxe era perìa,
chi no poeva ensir de for,
ma sospirando sì zemia,
quaxi szhatando per lo cor.
Considerando che morìa
la cossa che tanto amava
dentro e de for me stramortìa
l’angosa che de lui portava.
Ma sì me sforzai a dir:
«O doze fijor, guai a mi,
chi te vego cossì morir!
Ché no posso morir per ti?
Guarda in ver’ esta cativa
pina de szheso e de dolor;
no laxà de poi ti viva,
che no te dexe morir sor;
o morte, no me perdonar!
Chè, se te schiva l’atra gente,
tropo me piaxe e sì m’è car
che tu me oci’ a presente.
O fijor, doze amor me’,
che sozamente se portamo!
Senza voi che farò e’?
Fai sì che insemel noi moiramo.
O Zué fauzi e desperai,
donde me ven gran ruina,
pregove che voi ociai,
con lo fijor, questa meschina!
Guaimé, morte, como è presta
de zuigar lo fijor me’!
Che mara raxom è questa
che te dexiro e no me ve’?
Lo me viver è morì,
e lo morir vita me par:
lo sor me’ vego oscurì,
tenebrosa, che dom e’ far?
Oimé, donde tornerò e’
per devei esser consejaa?
Respondime, doze segnor me’:
da chi serò e’ pu compagnaa?
Se no te piaxe e tu no vòi
ch’e’ contego morir deja,
car fijor chi tuto pòi,
en qualche guisa me conseja!»

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Quando lo vidi così ferire
con pugni, spinte, colpi di canna
che tante ingiurie gli facevano e dicevano
che le sue carni erano straziate
e lui coronato di spine e sputacchiato,
bestemmiato con gran furore
schernito e disprezzato
a tal vergogna e disonore
fui tutta presa dal dolore
l’animo mio venne meno;
persi il senno e la voce
e caddi a terra, senza respiro.
Avevo con me le sorelle
e molte altre donne
che, vedendo questo dolore,
erano molto angustiate.
Tra di esse la Maddalena,
più di tutte, a parte me,
ne provò dolore e pena
sì che Dio la chiamò poi a sè.
Poi, siccome i Giudei istigavano
gridando «Muoia, muoia!»
con sacerdoti e farisei,
fu schernito e condotto fuori
per comando di Pilato;
e il centurione gridava
insieme con il popolo impazzito
che di nuocere non cessava.
Bestemmiando a gran voce
il mio figliolo, così percosso,
lo costrinsero a portar la croce
dove sarebbe stato inchiodato.
Su quel dolce viso
e su quella santa testa
di melma e sporcizia
c’era gran quantità.
Io, triste madre, lo seguivo
con le altre donne che piangevano
e venivano in mia compagnia
reggendomi come morta.
Infine, arrivammo in quel luogo
dove egli fu crocifisso
per il peccato di quella mela
da cui Adamo fu indotto in colpa.

Questo era il mio gran dolore
che sopportare non potevo;
vedermi morire un tale figlio,
l’unico che avessi!
La mia voce era fioca,
e non poteva uscire
ma sospirando gemevo
e quasi il cuore scoppiava.
Vedendo che moriva
ciò che io tanto amavo,
dentro e fuori ero tramortita
dall’angoscia che avevo per lui.
Eppure mi sforzai a dire:
«O dolce figlio, guai a me,
che ti vedo così morire!
Perchè non posso morire al tuo posto?
Guarda verso questa sciagurata
colma di strazio e dolore;
non permettere che ti sopravviva
tu non puoi morire solo!
O morte, non mi perdonare!
Ché, se gli altri ti fuggono,
assai mi è caro e mi piace
che tu subito mi uccida.
O figlio, dolce amor mio,
in qual misero stato ci troviamo!
Che farò senza di te?
Fa’ che moriamo insieme!
O Giudei falsi e disgraziati,
da cui mi viene tanta sciagura,
uccidete, vi prego,
questa misera insieme con suo figlio!
Ahimé, morte, quanto sei veloce
nell’impadronirti del mio figliolo!
Per qual funesto motivo
io ti desidero e tu non vieni?
Il mio vivere è morire
e il morire mi pare vita;
vedo oscurarsi il mio sole,
che debbo fare nelle tenebre?
Ahimè, a chi mi rivolgerò per un consiglio?
Rispondimi, dolce signore:
chi mi starà vicino?
Se non ti piace e non vuoi
che io muoia con te,
caro figlio che tutto puoi,
consigliami in qualche modo!»

La vittoria di Laiazzo

L’Anonimo è anche e soprattutto un poeta civile, che sull’orgoglio di essere genovese riesce a creare una vera e propria epica, sonora e potente, come si può constatare dalle sue poesie storiche: tutto un inno al coraggio dei liguri e alla loro pietas, grazie alla quale avranno la meglio sui loro nemici. Nelle vittorie di Laiazzo (1294) e di Curzola (1298) ottenute contro i Veneziani, il poeta vede la mano di Dio, che sostiene l’armata genovese, perchè formata da uomini virtuosi e guidata da ammiragli saggi e pii contro un nemico colpevole di innumerevoli nefandezze. L’arcaica vigoria della lingua dona una indefinibile suggestione a questi versi, ma li rende anche di difficile lettura per i genovesi di oggi.

Veniciam dissem intrando:
– Fucí som, in terr’ascoxi:
sperdui som, noi avisando,
li soci porci levroxi.
Niente ne resta a prender
se no li corpi de li legni:
preixi som senza defender;
de bruxar som tuti degni –
Como ‘li fom aproximai,
queli se levàn lantor,
como leon descaenai,
tuti criando: – A lor! A lor! –
Lì fo gran bataia durà
de le barestre, lance e pree,
chi da nona a vespro durà
e cazinna pre galee.
Bem fè mester l’ermo in testa
e de le arme fir guardao;
s’era spessà la tempesta
l’aere pareva anuvelao.
Venneciam fon vaguì,
le lor taride atraversae;
li nostri ge montàn garnì,
chi ben punì le lor pecae.
Cum spae, rale e costorel
gran venianza fen de lor:
venzui fon li mar guerer
e Zenoeixi n’an l’onor,
chi vinticinque taride àn
retegnue in questa rota,
che incontente li cremàn:
l’aver piiàm chi g’era sota.
Or par ben chi som pagai
li Veniciam tignosi:
ni conseio che zà mai
mentoem porci levroxi;
che la lengua no à osso
e par cossa monto mole,
ma sì fa rompir lo dosso
per usar mate parole.
Tanto som pu vetuperai
quanto pu noi desprexiavam:
se da menor som conquistai,
men son tornai cha no mostravam.
E’ spesso ò oido dir
che lì sor tornar lo dano,
donde sor lo mar ensir,
e scotrimento con engano.
E’ no me posso arregordar
d’alcum romanzo vertader
donde oyse uncha cointar
alchum triumpho si sobrer.
E per meio esser aregordenti
de sì grande scacho mato,
correa mille duxenti
zontoge noranta e quatro.
Or ne sea De loao
e la soa doze maire,
chi vitoria n’à dao
de gente de sì mar aire.
Lo grande onor che De n’à faito,
noi no l’avemo meritao;
ma lo grande orgoio è staito
degno d’eser abaxao.
E De chi ve e tuto sa
cum eternal provision,
sea, quando mester ne fa,
semper nostro campion.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

I Veneziani dissero arrivando:
– sono scappati, rifugiati nell’entroterra
si sono dispersi, accorgendosi del nostro arrivo
quei sozzi porci lebbrosi!
Nient’altro ci rimane da prendere,
se non le loro navi;
sono state catturate senza lotta
meritano d’essere bruciate –
Non appena si furono avvicinati
quelli (i Genovesi) si levarono allora
come leoni scatenati
gridando tutti: A loro! A loro!
Lì si subì una gran battaglia
di balestre, lance e pietre,
che durò da nona a vespro
e si buttò calce sulle galee.
Fu ben necessario l’elmo in testa
e proteggersi dalle armi
s’era addensata la tempesta
l’aere sembrava rannuvolato.
I Veneziani furono giocati,
le loro taride prese per traverso,
i nostri vi salirono ben muniti
e punirono i loro peccati.
Con spade, armi da taglio e costolieri
fecero di loro gran vendetta
furono vinti i malvagi nemici
e i Genovesi ne hanno l’onore,
ché venticinque taride hanno
catturato in questa rotta,
e subito le bruciarono
dopo aver preso ciò che c’era dentro.
Ora pare che siano ben pagati
i Veneziani tignosi:
e io li consiglio che mai più
ci chiamino porci lebbrosi;
ché la lingua non ha osso
e par cosa molto molle
ma fa rompere la schiena
quando si usano pazze parole.
Tanto più sono avviliti
quanto più ci disprezzavano;
se sono stati vinti da gente inferiore numericamente
valgono meno di quanto pretendessero.
Io spesso ho udito dire
che lì suole tornare il danno
da dove suole uscire il male
e la scaltrezza con l’inganno.
Io non posso ricordarmi
d’alcun racconto veritiero
dove abbia mai udito narrare
un trionfo così superbo.
E perché ci si ricordi meglio
d’un sì grande scacco matto
correa l’anno mille duecento
novantaquattro.
Ora sia lodato Iddio
e la sua dolce madre,
che ci hanno dato la vittoria
su gente così malvagia.
Il grande onore che Dio ci ha dato
noi non l’abbiamo meritato;
ma il grande orgoglio è stato
degno di essere abbattuto.
E Dio che tutto vede e sa
con eterna preveggenza
sia, quando è necessario,
sempre il nostro campione.

La venuta dell’imperatore Enrico VII in Italia

Anche il «Dante dei genovesi», pur essendo un guelfo osservante, scrive, come il Dante italiano, una poesia in favore della venuta di Enrico VII di Lussemburgo in Italia, e anche lui spera che l’Imperatore sia in grado di fare rigare diritto le fazioni nemiche, che si combattevano fra loro, così che possa riportare la pace, la serenità e il timore di Dio su di un territorio desolato e sconvolto, come quello che era divenuto «lo giardin de lo Imperio» a quei tempi. L’Anonimo si serve di una lunga metafora marinaresca per tratteggiare la situazione disperata dell’Italia di allora e la paragona ai pericoli e alle difficoltà, che i marinai genovesi devono affrontare continuamente per la loro sopravvivenza; ottiene in tal modo un notevole effetto poetico. Riportiamo la prima parte del significativo testo, che è anche servito come base per una bella canzone di Roberta Alloisio, nel suo albo Janua.

Noi chi sempre navegemo
e ’n gram perigor semo
en questo perigoloso mar,
ni mai possamo repossar,
no devemo uncha cesar
lo pietoso De pregar
che ne scampe, con soi santi,
da li perigoli, chi son tanti,
de li gram conmovimenti
de fortuna e de gram venti,
bachaneixi e unde brave
chi conturban nòstre nave.
Penser àn inter tante onde
che la nave no prefonde.
L’aer par tuto ofoscao,
e lo mar astorbeao;
no par stella, ni sol, ni luna:
tento è lo cel d’esta fortuna;
ni se trovemo conforto
de poer venir a porto;
ni osemo strenzer li ogi
tanto è pin lo mar de scogi;
e sempre semo aguaitai
da berruel e da corsai,
chi no cesam de dar storte,
en rapinar e dar morte,
sempre temando eser conquixi
d’alcun nostri enimixi.
De vianda e de bevenda
amo si scarsa prevenda,
chi ne dà monto gram guerra,
ni arrivar possamo a terra.
En si greve ruyna
no savemo aotra meixina
de qual alcun de noi spere
se no far a De pregere,
chi za mai no abandona
chi ge fa pregera bonna
e in gran tribulacion
sa tosto dar salvacion
e en le grande aversitae
se move tosto a pietae,
che d’alcun no vor la morte
ni gi ten serrae le porte.
Or creo, com’denanti,
ch’el a oyo qualche santi
chi l’an pregao devotamenti,
ch’elo consolerà la gente.
e ’n tanta neccessitae
mostrerà gran pietae
e, se no romanerà per lor,
gi darà porto salvaor.
Che quando note e mar tempo era
entre si gran destorbera,
li naveganti De pregando
– e alquanti legremando –
entre grego e tramontanna
se compose una tavanna,
con troyn, losni, vento ioio
dentro lo quar se fa un oio
d’una luxe naa de novo
e gran serenna aprovo
chi fa alò tar crescimento
traquilar mar e vento:
lo cel seren e resplendente
mostra lo sol monto luxente;
perché e’ spero e me conforto
de venir a segur aporto.
A lo mar si conturbao
è questo mondo asemeiao,
chi mai no è senza regaio,
de guerra, breiga e travaio,
und’è la gente si iniga
che de paxe no g’è miga.
Li ingani, scandar, orgogi
se pon apelar li scogi.
Le fortune, mar e venti,
son li diversi accidenti
e le grande aversitae
che aduxen le peccae.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Noi che sempre navighiamo
ed in gran pericolo siamo
in questo pericoloso mare
né mai possiamo riposare,
non dobbiamo mai cessare
il pietoso Dio pregare
che ci scampi coi suoi santi
dai pericoli, che son tanti
dai grandi sconvolgimenti
di tempeste e di gran venti,
mareggiate e onde ribalde
che danneggiano le nostre navi.
Hanno pensiero tra tante onde
che la nave non sprofondi.
L’aere sembra tutto offuscato
e il mare intorbidito
non appare stella né sole né luna
tinto è il cielo da questa tempesta;
né troviamo conforto
di poter venire a porto;
né osiamo chiudere gli occhi
tanto è pieno il mare di scogli
e sempre siamo insidiati
da briganti e da corsari,
che non cessano di aggredire,
rapinando e dando morte,
sempre temendo essere vinti
da qualche nostro nemico.
Di cibo e di bevanda
abbiamo così scarsa provvista
che ci dà gran difficoltà
né arrivar possiamo a terra.
In sì grave rovina
non conosciamo altra medicina
sulla quale alcuno di noi abbia speranza
se non fare preghiere a Dio,
che mai non abbandona
chi lo prega come si deve
e in gran tribolazione
sa presto dare salvezza
e nelle grandi avversità
si muove presto a pietà,
poiché non vuole la morte di alcuno
né gli tiene chiuse le porte.
Ora credo, come prima,
ch’egli ha udito qualche santo
che lo ha pregato devotamente
e consolerà la gente,
e in tanta necessità
mostrerà grande pietà,
se non gli si opporranno,
li porterà in salvo.
Ché, quando è notte e mal tempo
in sì grande confusione
i naviganti, Dio pregando,
– e parecchio lacrimando –
tra greco e tramontana
si formò una tempesta
con tuoni, lampi, vento piovoso
nel quale si fa un occhio
di una luce nata appena
e un gran sereno dopo.
Che fa subito tale miglioramento
placare il mare e il vento:
Il cielo sereno e risplendente
mostra il sole molto lucente;
perché io spero e mi conforto
di venire a porto sicuro.
Al mare sì turbato
è paragonabile questo mondo,
che mai non è senza abbondanza
di guerra, liti e fatiche.
perché la gente è così malvagia
che pace non c’è affatto.
Gli inganni, scandali, orgogli
possono essere chiamati scogli.
Le tempeste, mari e venti,
sono i diversi eventi
e le grandi avversità
che i peccati provocano.