Conseggio pe-o patrimònio linguistico ligure

Conseggio ligure

Benedetto Schenone (XVI sec.)

Presentazione a cura di Alessandro Guasoni

Di lui si sa pochissimo, a parte che fu cieco e cantò un amore totalmente spirituale, distaccato da ogni esperienza terrena. Per Benedetto Schenone l’esperienza amorosa è mistica e religiosa, o addirittura esoterica; in tono astratto e allusivo, l’autore ci parla dell’amore platonico per una donna angelicata, che guida l’uomo verso il Paradiso, come la Beatrice di Dante, o come nei poeti stilnovisti; potrebbe essere solo un gioco letterario, sebbene non si possano escludere conseguenze anche fisiche in questa ricerca di una realtà sovrumana. Persino la circostanza della cecità del poeta si potrebbe pensare simbolica e inventata per conferire maggiore espressività alla condizione di distacco dai sensi che la sua poesia suggerisce. Il testo dà l’impressione di essere destinato ad un ambiente nobiliare raffinatissimo, educato alla lettura del Petrarca e di Dante, ancor più di quello del Foglietta e del Cigala; per contrasto, lo Schenone risulta anche l’autore di due sonetti d’intonazione comica, che fanno da controcanto all’alta ispirazione spirituale e religiosa del suo maggiore componimento, quasi a volerlo sdrammatizzare, e riportare il lettore con i piedi per terra.

Ottave d’amore

Si ben n’han luxe, o Donna, ri oggi mè
che troppo agro accidente l’amortà
ni pon vei ri miracori che Dé
tutto ro giorno in questo mondo fa,
quella virtù, che così larga in Cè
vè de natura, quando a ve formà,
tanta luxe me porze all’intelletto
che de vui posso vei ro ben perfetto.

Perché de rero, un annimo gentì
per ornamento ha moè brutta figura
e s’atramenti segue,o se pue dì
che quello sea deffetto de natura,
l’ascoso che da mi se fa sentì,
ro descoverto ha de mostrame cura,
si che s’odo da vui l’ascoso ben
veggo quello chi pà, nì chiù ni men.

Pe questa via, mi che son orbo posso
giudicà sannamente de corò
e de quando me fere, e luxe adosso
do vostro bello viso ro sprendò
che quanto è da ro pichieno à ro grosso
e da ro chiù cattivo, à ro megiò,
tant’è de defferenza à quella luxe
da l’atra chi ro giorno in terra aduxe.

E ve crei che non sacchie monto ben
che Bella como vui Donna no vive,
che tutto l’honò se ve conven
che lengua possa dave e penna scrive?
Che per vui soramenti Amò sosten
ro Regno e da re vostre luxe vive
piggia quella virtù con che da puoe
tente annime o l’accende e tenti cuoe?

O quanto me stupisso e maraveggio
quando ra mente drizzo, o Donna, in vui
e re bellezze vostre ben cerneggio
che ve fan così rera chì tra nui
à ra Lunna, à ro Sò no v’assemeggio
che varei meggio assè de tutti doi,
ma come è dritto e raxoneive à quella
Bellezza chi de lò ve fè chiù bella.

Da questo nasse annima mea che tenti
annimi dexirosi an per costume
de xuorà come oxelli tutti quenti
à ro vago sprendò dro vostro lume,
donde arrivè, tra quelli lampi ardenti,
con ra vitta meschin lassan re chiume
e fan quello nessou chi fa ra seira
ra porcelletta intorno à ra candeira.

E veramenti se chi troppo vuò
a ra spera dro sò dritto mirà
de sorte s’abbarluga, che dapò
ro gianco, neigro a ra sò vista pà,
ra vostra viva luxe ro mè cuò
chi può ro scuro inferno chiero fà
chi ardisse oggio ben san de mirà chie
orbo no restereiva como mie?

Con l’annimo per zò netto e purgao
ogni corpo mortà v’honore e inchinne
s’o desidera per vui fasse beao,
e vei cose dro Cè belle, e divinne.
A re què mi son zà tanto accostao
anchora che a taston ro pè camminne
che veggo bello e chiero ro pareiso
per quella via c’ho da vui donna impreiso.

[…]

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Benché non abbiano luce, o donna, gli occhi miei
perché un troppo aspro incidente li spense,
né possono vedere i miracoli che Dio
compie tutto il giorno in questo mondo
quella virtù che così grande in cielo vede per natura,
quando vi formò, tanta luce mi porge all’intelletto
che di voi posso vedere il bene perfetto.

Poiché raramente un animo gentile
ha un brutto aspetto al di fuori
e se accade diversamente, si può dire
che sia difetto di natura,
il nascosto che da me si fa sentire,
ha cura di mostrarmi ciò che è rivelato,
sicché se odo da voi il bene nascosto
vedo ciò che appare, né più né meno.

Per questa via, io che sono cieco,
posso giudicare sanamente dei colori
e di quando mi ferisce e splende sopra
lo splendore del vostro bel viso
che quanto è dal piccolo al grosso
e dal più cattivo al migliore,
tanto è di differenza a quella luce
dall’altra che il giorno in terra adduce.

E credete che non sappia molto bene
che Donna Bella come voi non esiste,
che vi spettano tutti gli onori
che lingua possa darvi e penna scrivere?
che per voi solamente Amore sostiene
il Regno e dalle vostre luci vive
trae quella virtù con poi
tante anime accende e tanti cuori?

Oh, quanto mi stupisco e meraviglio
quando la mente dirigo, o donna, verso di voi
e bene discerno le vostre bellezze
che vi rendono così rara qui fra di noi;
non vi paragono alla Luna, al Sole
perché valete assai più di entrambi,
ma come è di diritto e ragionevole a quella
Bellezza che di loro vi fece più bella.

Da ciò nasce, anima mia, che tanti
animi desiosi hanno d’usanza
di volare come uccelli tutti quanti
al vago splendore del vostro lume,
dove arrivate, tra quei lampi ardenti,
poverini, lasciano la vita insieme con le piume
e fanno quella stupidaggine che fa la sera
la farfalletta intorno alla candela.

E veramente, chi troppo vuole
guardare fissa la sfera del sole
talmente si abbacina che poi
alla sua vista il bianco sembra nero.
Oh cuor mio, la vostra viva luce
che può render chiaro il buio inferno,
quale occhio sano ardisce mirarla
che non divenga cieco come me?

Con animo perciò netto e purgato
ogni corpo mortale v’onori e s’inchini
se desidera per mezzo vostro farsi beato
e vedere cose del cielo belle e divine.
Alle quali io sono già tanto vicino
benchè il piede cammini a tentoni
che vedo bello e chiaro il Paradiso
per quella via che da voi, Donna, ho appreso.

[…]

Sonetto

Alle tredici ottave d’amore seguono due sonetti comici, dove lo Schenone sembra voglia mostrare l’altra faccia della medaglia della sua poesia amorosa, tutta cerebrale, trasferendola su di un registro basso.

Questo frasca d’Amò, questo pissè
chi no sa marelaede ancon parlâ
m’ha pigiaou de tà sorte à consumà
che no posso aura chiù vive per lè.

O tira certe frecchie esto caghé,
da figiuò, come l’é, senza pensà
ch’o me porreiva un dì fossa amazzà
e fame restà morto in su doi pé.

Ma se un giorno o me capita intre moen
questo fraschetta, questo papachiè,
che si ghe dago tenti berlendoen,

ch’o butterà lì rotti e pestumè,
e ro carcasso, e l’erco, che tutti en
zeveggi, chi me fan stà sempre inguè.

Letto da Alessandro Guasoni

Traduzione italiana

Questo ragazzetto di un Amore, questo piscione
che quasi non sa ancora parlare
ha preso a tormentarmi in tal modo
che a causa sua non posso più vivere.

Scaglia certe frecce, questo cagone,
da quel bambino che è, senza pensare
che qualche volta potrebbe forse ammazzarmi
e farmi restare morto sui due piedi.

Ma se un giorno mi capita tra le mani
questo moccioso, questo fantoccetto,
gli dò tanti di quei ceffoni,

che getterà lì rotti e frantumati,
e il turcasso, e l’arco, che sono tutte
cianfrusaglie, che mi fanno stare sempre in riga.