Fiorenzo Toso (1962–2022)
Pare che i primi interessi del linguista, docente universitario, poeta Fiorenzo Toso fossero per l’archeologia; in fondo per tutta la vita ha continuato a studiare il passato, scavando non nella terra, ma nel linguaggio, in questo enorme patrimonio di parole che ci sono state tramandate, e non sono ancora state tutte esplorate, studiate, catalogate: Toso era un minatore di parole e una volta che aveva trovato queste pietre preziose, le raffinava, le usava in poesia. I primi tempi, in cui apparvero le poesie di Toso, si sarebbe potuto pensare che fossero scritte in arenzanese, in un genovese rustico, per il prevalere di termini arcaici, desueti; in realtà, si trattava di un genovese letterario, costruito con l’apporto di termini sì rustici, ma anche colti, desunti dal lessico degli antichi scrittori genovesi. Il tutto per restituire al ligure la dignità di lingua, che è andata perduta in seguito ai mutamenti sociali e a varie vicende storiche, politiche e letterarie. Quello era l’intento, in effetti aveva costruito una lingua, che era anche nello stesso tempo uno stile tutto suo. Non ci illuderemo che, semplicemente usando queste stesse parole, otterremo uno stile uguale o solo simile a quello di Toso. Ciò che è peculiare alla sua poesia è del tutto inafferrabile; come avviene per ogni vero poeta, la sua vera personalità sta nello stile, nella combinazione delle parole, in qualcosa di indefinibile che non si può ricuperare; rimane come un giardino che si può osservare da fuori, ad una certa distanza, ma dove non possiamo più entrare.
O rattopennugo o no sa
Spesso, protagonista delle poesie di Toso è il paesaggio ligure, delicatamente rivisitato e reinventato con coloriture psicologiche.
O rattopennugo o no sa
che a feuggia a l’é verde
che verde l’é o mâ.
Contento da neutte o no sa
che a feuggia a ven bruña
de ciongio l’amâ.
Traduzione italiana
Il pipistrello
Il pipistrello non sa
che verde è la foglia
e verde il mare.
Contento della notte non sa
che la foglia diventa bruna
e l’altomare di piombo.
A luña a fia
A luña a fia
penscëi d’argento
oivi antighi
à l’açimento.
Se peu moî
sens’avei ‘nteiso o cento
de ramme stigge
cegæ da-o vento,
ò vive solo
pe-o ræo momento
che a luña a fia
penscëi d’argento.
Traduzione italiana
La luna fila
La luna fila
pensieri d’argento
olivi antichi
tormentati.
Si può morire
senza avere ascoltato il pianto
degli esili rami
piegati dal vento,
o vivere solo
per quel raro momento
quando la luna fila
pensieri d’argento.
Co-i euggi perdui à ponente
Co-i euggi perdui à Ponente
miavimo o sô deslenguâ
e a veia d’un barco da lonxi
confondise con o zinâ.
I öchin, à quell’oa, pan i seugni
che s’emmo ascordou de sugnâ:
fiezzan in sce l’äia ferma
lasciandoseghe rebellâ.
Co-i euggi perdui à Ponente
miavimo o giorno scentâ.
Traduzione italiana
Con gli occhi perduti a ponente
Con gli occhi perduti a Ponente
guardavamo il sole dissolversi
e la vela di una nave lontana
confondersi con l’orizzonte.
I gabbiani, a quell’ora sembrano sogni
che abbiamo dimenticato di sognare:
scivolano sull’aria immobile
lasciandosi trascinare.
Con gli occhi perduti a Ponente
guardavamo il giorno scomparire.
Quello paise ciù mòrto che vivo
In questa lirica e nella seguente si può avvertire l’influsso di J. V. Foix, autore con cui Toso ha in comune la caratteristica di essere un «cacciatore di parole», un segugio del recupero lessicale, ma al posto del delirio surrealista del poeta catalano, riconosciamo ben presto in questi versi una ben più pacata aria di casa nostra e una sommessa allusione alla irreversibile decadenza dell’entroterra ligure.
Quello paise ciù mòrto che vivo
tra çent’atri che conoscio
o m’é cao.
Se peu camminâ pe de oe
tra e miage de pria
sensa vedde persoña
– se i gatti no son de persoñe –
e o sô o no l’arriva
là ‘n fondo à quell’ombra
ch’a s’é deponâ
da mill’anni.
Perdo o cammin
e m’attreuvo inta ciassa
onde i vegi son prie
‘n mezo a-e prie.
Son o tempo chi passa
e chi é fermo,
conoscian e cöse
che s’an da conosce.
– De che mòrte moî, belle gente?
– Da mòrte sottî de l’oivo
da mòrte sottî do Ponente.
Traduzione italiana
Quel paese più morto che vivo
Quel paese più morto che vivo
tra cento altri che conosco
mi è caro.
Si può camminare per ore
tra i muri di pietra
senza incontrare persona
– se i gatti non sono persone –
e il sole non arriva
in fondo a quell’ombra
che si è depositata
da mille anni.
Perdo la strada
e mi ritrovo in piazza
dove i vecchi sono pietre
tra le pietre.
Sono il tempo che passa
e che è fermo,
conoscono le cose
che bisogna conoscere.
– Di che morte mo rite, brava gente?
– Della morte sottile dell’olivo
della morte sottile del Ponente.
Eimo çento eimo dexe eimo uña
Eimo çento eimo dexe eimo uña
feuggia in sce l’ægua
barco de regòrdi
eimo çento eimo dexe
ciù veie che còrpi
lampare into scuo
in sciâ rotta à ponente
eimo çento eimo dexe eimo uña
canson che in sciô vento
a l’é andæta à l’amâ.
Traduzione italiana
Eravamo cento eravamo dieci eravamo una
Eravamo cento eravamo dieci eravamo una
foglia sull’acqua
bastimento di ricordi
eravamo cento eravamo dieci
vele più che corpi
lam pare nel buio
sulla rotta di ponente
eravamo cento eravamo dieci eravamo una
canzone che sul vento
è andata in mare aperto.
Corriendo por la playa, 1908
Tornato alla poesia dopo oltre vent’anni di pausa creativa, Toso sembra unificare in questa nuova fase le numerose sollecitazioni e stratificazioni culturali e avviarle verso una generale ricapitolazione dei suoi temi favoriti e della sua ricerca esistenziale, con ciò perseguendo anche lo scopo di corroborare sempre più il suo progetto di rifondare in epoca moderna una lingua genovese letteraria duttile, espressiva al massimo, atta ad esprimere ogni sfumatura del pensiero. La serie di poesie ispirate ai dipinti di Joaquin Sorolla esprimono le sensazioni provate dal poeta di fronte alle opere del pittore catalano e potrebbe essere accostata a certe opere barocche che cercavano di fondere insieme forme d’arte diverse, ma fa pensare soprattutto al teatro: l’autore dà la sua voce a dei personaggi che si presentano alla sua fantasia uno dopo l’altro e li fa recitare per noi. In questo, Toso è avvicinabile al suo autore preferito, Gian Giacomo Cavalli, la cui poesia, pur rientrando nei canoni della poesia lirica, ha un fondo teatrale, con una tipica ricerca dell’effetto prezioso, raffinato, al di là dei concetti che il testo esprime.
Besugniæ aspëtâ giornæ ciù longhe
äia ciù cada, e in giæa figgeu chi core
descäsi, donde l’æña a beive l’ægua,
figge che rian, vestî gianchi de lin,
i bricchi à tremmoâ inta luxe açeisa
mai tanto fòrte che no a reze i euggi.
No a stæ de luggio: quella che da niatri
a ven d’arvî e de mazzo, e l’é ancon fresco
quande ven seia e scciuppa tutte e reuse.
E aloa partî pe-o viægio di regòrdi
– infançia indefinia, coæ sensa nomme
de cöse sccette che no mettan poia.
Lasciâse andâ comme cometa a-o vento
verso nisciun destin, e sempiterno
fermâ in scî lapri un fattoriso puo.
Traduzione italiana
Bisognerebbe aspettare giorni più lunghi
aria più calda, e sulla spiaggia bambini che corrono
scalzi dove la sabbia beve l’acqua,
ragazze che ridono, vesti bianche di lino,
i monti che tremolano nella luce così accesa
che gli occhi non la reggono.
Non l’estate di luglio: ma quella che da noi
viene d’aprile e di maggio, quando è ancora fresco
verso sera, e scoppiano le rose.
E allora partire per il viaggio dei ricordi
– infanzia indefinita, voglia senza nome
di cose semplici che non mettono paura.
Lasciarsi andare come aquilone nel vento
verso nessun destino, ed eterno
fermare sulle labbra un sorriso puro.
Pe-o vento neuvo
La lunga navigazione nella vita, adombrata dalla metafora marinaresca, vede alla fine, come in uno spiraglio, rivelarsi la presenza del sacro, d’un Dio indefinito e assolutamente aconfessionale.
Pe-o vento neuvo ti saiæ inandiou
ch’o te portià ‘nde no t’imaginavi
ësighe tære a-o sô mai tanto belle.
Da-a proa sciammi d’öchin comme promisse
e a festa di drafin inta teu scia
(no pâ che t’aggi scompassou ‘nfinia
desteisa de tempeste, ni che scheuggi
e giassi fòrti t’aisci inte l’ammia).
Co-o vento neuvo t’arriviæ ‘na seia
a-o pòrto ciù lontan, desconosciuo
à tanti e tanti: arredossou tra i monti,
d’ægue prefonde, un scâ ciù che seguo.
Comme ti saiæ vegio, l’espeiensa
a t’avià fæto intende quelli segni
che te dian ch’o l’é l’urtimo: a-o fondo
de tanto vive e tanto mondo. Aloa
co-i euggi pin de lagrime e o cheu inscio
ti t’addormiæ inte brasse do teu dio.
Traduzione italiana
Per il vento nuovo
Per il vento nuovo sarai preparato
che ti condurrà dove non avresti im maginato
essere terre così belle sotto il sole.
A prua stormi di gabbiani come promesse
e la festa dei delfini sulla tua scia
(non sembra che tu abbia attraversato infinita
distesa di tempeste, né che scogli
e montagne di ghiaccio siano state nel tuo sguardo).
Col vento nuovo arriverai una sera
al porto più lontano, sconosciuto
a tanti e tanti: riparato dai monti,
d’acque profonde, uno scalo tra i più sicuri.
Siccome sarai vecchio, l’esperienza
ti avrà fatto interpretare i segni
che ti dicono essere l’ultimo scalo: in fondo
a tanto vivere e a tanto mondo. Allora
con le lacrime agli occhi e il cuore rigonfio
ti addormenterai tra le braccia del tuo dio.
Serv’assæ
Le prose di Fiorenzo Toso sono state quasi tutte d’argomento sociale, a volte satirico; nel caso di Serv’assæ tentò invece un argomento dalle sfumature soprannaturali, benché non vi manchi qualche accenno politico, ma molto distillato e solo sullo sfondo. L’ambientazione sudamericana, con il richiamo alle vicende e alla vita degli immigrati genovesi nell’America Latina, permette anche la chiara allusione al mondo degli sciamani indios che Castaneda ci ha fatto conoscere, con le sue enigmatiche storie di don Juan. La voce registrate è quella dello stesso Toso, una delle sue rare registrazioni in genovese.
Gh’ò visciuo pe di belli anni inte quello recanto a-o confin tra a Repubrica e o Braxî. Oua m’ò ascordou o nomme, maniman no me ô veuggio regordâ. I indien e i mestissi parlavan o topi, quelli pöchi gianchi unna mescciua de casteggia e portogheise. Da unna parte à l’atra do sciumme ghe passava de tutto, che, òmmi, bestie, poule, comerci, e mi fava dinæ arreo co-o mæ barchin, tutto l’ea serrâ un euggio in sciâ merçe e vonze ben e stacche di prepòsti. Da-e mæ dònne, into cado da neutte a-o tròpico, me lasciava ciammâ inte unna mainea che no ve diò, perché a l’é quella ch’a l’é scrita in scî papê do commissäio. Da tutti i atri ea conosciuo pe-o zeneise do barchin, che ghe n’ea un atro, de zeneise, quarche miggio ciù in zu, o zeneise di revòlveri ghe divan, e no ò atro da azzonze, che.
A Repubrica a me çercava, da-i tempi ch’ea desbarcou inte quello portixeu de là do cavo. No pe ëse grandestin – tutti, inta Repubrica, da-o ciù a-o meno son grandestin, o Prescidente ciù che tutti, in sciâ sò pôtroña sossa do sangue de quello chi gh’ea avanti. Ma pe ëse, scià m’intende, quello che scià sa za.
Fæto se sta che un bello giorno m’an dito ch’ean ch’arrivavan. Çinque, à cavallo, che doî ò trei no bastavan, che. O João o l’aiva visti in sciâ pista ch’a taggia pe-a Sierra. Che vegnivan pe mi, l’ea ciæo comme o sô, o Prescidente o no mandava tutte quelle gente lì inte quello staggio pe dâ a mente à di sciätagalliñe. Ò fæto giusto in tempo à imbarcâ co-a valixe che tegniva za inandiâ co-i biggetti de banca. Dòllai americhen, réis do Braxî, co-a monea da Repubrica no s’anava guæi da-a lonxi. De mæ dònne no sò, se l’avian gödie co-a cascia de ròn che tegniva sott’a-o letto, no doveivan ëse gente da fâ tanti comprimenti.
Son anæto tutto sciù pe-o rio, un giorno e unna neutte, fin donde ghe n’ea un atro ch’o se ghe cacciava drento. Ò virou e me ghe son infiou. No m’ea mai sponciou coscì à ponente, solo sentiva che no l’ea o caxo d’anâ inderê. De maniman ch’anava avanti, o sciumme o s’astrenzeiva int’un riâ da-o fondo basso, ascoso tra i erboi e e ligagge, int’un bronzoâ infinio de sinsae e de atre bestiete. Doe vòtte ò visto di caimen che se bollavan inte l’ægua, che, lenti, con quell’äia de chi nò à de sprescia perché o sa d’ëse o destin che atri se spëtan. Me saiæ stæto cao virâ de bòrdo, ma no m’incallava ancon, à reisego d’amorâme ô saiva ch’aiva ancon da scentâ. Scià ô sa, voscià, quello che se dixe de prexoin da Repubrica e di seu carçê, che.
Quande l’é stæto neutte, me son addormio in coverta. Un seunno profondo. Gh’ea un cado da moî, gh’ea di foî che me davan di resati, ma mi ea stranscio da-a fadiga e da-a tenscion. Saian chinæ da-i erboi sensa fâ de sciato. Peu dâse che m’aggian fæto respiâ quarcösa, no ghe ô sò dî, fæto se sta che quande me son addesciou ea in tæra, patanuo inte un veuo d’erboi, in mezo a-o çercio de quelli ommi e dònne piccin, nui liatri ascì, assettæ tutto in gio.
M’ammiavan sensa dî ninte. Spëtavan. Conosceiva de topi tanto che basta pe çercâ de fâme intende. Gh’ò dito chi ean e cöse voeivan da mi. No m’an dæto replica, mori sensa pascion. Doveiva ëse mëzogiorno, o sô a strapicco o me martellava e mi moiva da-a sæ.
Gh’ò domandou da beive. Un ch’o l’ea vegio e che da-e pittue in sciâ pelle o poeiva ëse o ciù importante o l’à mesciou un dio tanto che basta. Unna dònna a l’é stæta sciù e a l’é vegnua inderê con de l’ægua inte unna feuggia, tanto da bagnâme i lerfi. Aloa ò avuo poia pe-a primma vòtta, ma no l’ò dæto a divedde, no son bon. Un bello momento, quello de comando o s’é misso à parlâ, o me fa:
«Che no ti scenti. Serv’assæ».
«No son che scappo, che, me son perso», gh’ò dito.
Se gh’é averto e naixe e ò avuo torna poia. No l’ea o caxo de dî de böxie.
«Me veuan serrâ e lasciâme moî».
«Stâ serrou, o no l’existe. Moî, o no l’existe», o m’à dito. «Ti veddi ninte, chì coscì, da stâ serrou?».
«Ma chì coscì o no conta», fasso mi.
«Sto chì o l’é o mondo», o me replica, «e ghe semmo tutti drento. Quello che ti særi inte de ti, giusto quello lì o t’à da inspaximâ».
O me lezzeiva drento, commandante, m’intendeiva ch’o m’intrava drento fin in fondo e che pe mi no gh’ea leugo à sghindâlo. O fava mâ comme tutto. Aloa ò criou, ò criou mai tanto fòrte comme no aiva mai criou in tempo de mæ vitta, e me son addesciou che criava, in sciâ coverta do mæ barchin donde scià m’à trovou».
«Che se no criavi, saiëscimo passæ lì da arente sensa dâghe a mente, bachicha. Ëi coverto da-e ramme di erboi, barchin e tutto. Ramón, mandæ pe-o Prescidente, “a Repubrica a l’à guägno. Torna”».
Letto dall’autore
Traduzione italiana
È inutile
Ho vissuto per molti anni in quell’angolo remoto al confine tra la Repubblica e il Brasile. Adesso ne ho dimenticato il nome, o forse non lo voglio ricordare. Gli indios e i meticci parlavano tupi, i pochi bianchi un miscuglio di spagnolo e portoghese. Da una sponda all’altra del fiume passava di tutto, che, uomini, bestiame, parole, mercanzie, e io facevo soldi a palate col mio battello, bastava chiudere un occhio sulla natura della merce e ungere bene le tasche dei doganieri. Dalle mie donne, nelle torride notti tropicali, mi lasciavo chiamare con un nome che non le dirò, perché è quello che sta scritto sulle carte del commissariato. Da tutti gli altri ero conosciuto come il genovese del battello, perché ce n’era un altro, genovese, qualche miglio a valle, lo chiamavano il genovese delle pistole e non ho altro da aggiungere, che.
La Repubblica mi cercava, fin dai tempi che ero sbarcato in quel porticciolo di là del promontorio. Non perché fossi clandestino – tutti più o meno, nella Repubblica, sono clandestini, il Presidente più di ogni altro, sulla sua poltrona sporca del sangue del suo predecessore. Ma perché ero, per intenderci, quello che lei già sa.
Ad ogni modo, un giorno mi fu detto che stavano arrivando. Cinque, a cavallo: due o tre non sarebbero stati sufficienti, che. João li aveva visti sulla pista che attraversa la Sierra. Che venissero per me era evidente, il Presidente non avrebbe mandato tanti uomini in quel porcile solo per dare addosso a qualche rubagalline. Feci appena in tempo a imbarcarmi con la valigia che tenevo già pronta, piena di biglietti di banca. Dollari americani, reis brasiliani, con la moneta della Repubblica non sarei andato troppo distante. Delle mie donne non so dire, se le saranno godute insieme alla cassa di rum che tenevo sotto il letto, non era gente da fare complimenti.
Risalii il fiume, per un giorno e una notte, fino al punto in cui un altro vi sfociava dentro. Virai e mi ci addentrai. Non mi ero mai spinto così a est, ma sentivo che non era il caso di tornare indietro. A mano a mano che avanzavo, il fiume si restringeva in un torrente dal fondo basso, nascosto tra gli alberi e le liane, in un ronzare infinito di zanzare e di altri insetti. Vidi almeno due volte dei caimani che si tuffavano nell’acqua, che, lenti, con l’aria di chi non ha fretta perché sa di essere il destino che altri si aspettano. Avrei preferito tornare indietro, ma non me la sentivo ancora, pure col rischio di incagliarmi sapevo di dovere ancora scappare. Lei sa quel che si dice delle prigioni della Repubblica e dei suoi carcerieri, che.
Quando scese la notte, mi addormentai in coperta. Un sonno profondo. Si moriva di caldo, i rumori della foresta mi facevano trasalire, ma ero esausto per la fatica e la tensione. Forse scesero dagli alberi silenziosamente. Forse mi fecero annusare qualcosa, non glielo so dire, ma quando mi risvegliai ero per terra, completamente nudo, in una radura, in mezzo al cerchio di quei piccoli uomini e donne, anche loro nudi, che mi circondavano.
Mi guardavano in silenzio. Aspettavano. Conoscevo il tupi abbastanza da provare a farmi capire. Chiesi chi erano e che cosa volevano da me. Non ebbi risposta, visi impassibili. Ormai doveva essere mezzogiorno, il sole mi martellava addosso e stavo morendo di sete.
Chiesi da bere. Un vecchio che, a giudicare dalle pitture sulla pelle doveva essere una personalità importante mosse appena un dito. Una donna si alzò e tornò con dell’acqua in una foglia, appena sufficiente per bagnarmi le labbra. Allora finalmente ebbi paura, ma non lo feci vedere, non ne sono capace. A un certo punto il capo cominciò a parlare:
«Non scappare. È inutile”»
«Non sto scappando, che, mi sono perso», replicai.
Dilatò le narici ed ebbi di nuovo paura. Non era il caso di mentire.
«Vogliono rinchiudermi e farmi morire».
«Essere rinchiusi, non esiste. Morire, non esiste», rispose. «Cosa vedi, qui, che possa rinchiuderti?».
«Qui non conta», dissi.
«Qui è il mondo», rispose, «e tutti ci siamo rinchiusi. Ciò che hai chiuso dentro di te, solo quello ti deve spaventare».
Mi leggeva dentro, comandante, capivo che stava penetrando dentro di me, fino in fondo, e che non potevo evitarlo. Faceva tremendamente male. Allora ho urlato, ho urlato così forte come non avevo mai urlato in vita mia, e mi sono svegliato urlando, sulla coperta del mio battello, dove mi ha trovato».
«Se non avessi gridato, saremmo passati lì vicino senza accorgercene, bachicha. Era nascosto dai rami degli alberi, battello compreso. Ramón, un messaggio per il Presidente, “La Repubblica ha vinto. Ancora una volta”».